Linkiesta, 10 novembre 2023
Cavour, Giolitti, De Gasperi
Secondo l’opinione più condivisa fra i nostri storici, nei centosessant’anni successivi a Cavour due soli uomini, Giovanni Giolitti e Alcide De Gasperi sarebbero paragonabili a lui. Personalmente, sono ancora più restrittivo. Non nego a Giolitti di aver attinto anche lui alla grande politica. Si trovò a governare quando era iniziata da poco l’industrializzazione italiana e aveva cominciato a prender piede quella borghesia imprenditoriale sulla cui crescita Cavour aveva scommesso per la modernizzazione del paese.
In un’Italia nella quale da una parte erano ancora assai forti le visioni conservatrici oltre che gli interessi retrivi di larga parte della proprietà terriera, dall’altra cresceva il movimento socialista, con i suoi riformisti moderati, ma anche con i suoi massimalisti. Giolitti fu bravo a navigare al centro; arrivando a riconoscere, di fatto, il diritto di sciopero e a varare riforme istituzionali e sociali, coerenti con il respiro pluriclasse della società industriale.
Nessuno più perseguì gli scioperi non violenti, l’orario di lavoro delle donne e dei fanciulli venne limitato a dodici ore (erano davvero altri tempi!), vennero nazionalizzate le ferrovie, mentre fiorivano sul piano locale le municipalizzate per i servizi pubblici, fu introdotta l’indennità parlamentare, consentendo così anche ai non abbienti di essere eletti. Non solo. Anche sul piano internazionale Giolitti mise l’Italia sulla strada giusta, riconducendola alle alleanze più coerenti con i suoi interessi e creando così le premesse che permisero poi l’ingresso nella Prima guerra mondiale (ingresso peraltro a cui lui era contrario) sul versante che ne sarebbe uscito vincente
Tutto questo è vero, ma purtroppo è anche vero che la sua guida del Partito liberale non riuscì a impedire lo sfaldamento dello stesso partito davanti al conflitto fra massimalisti di sinistra e conservatori di destra, che avrebbe portato all’incoronazione del fascismo. Le circostanze erano certo diverse da quelle nelle quali si era trovato Cavour e forse erano meno governabili. Certo è che non fu la sua visione a imporsi, ma prevalsero due visioni opposte e inconciliabili, che condannarono il paese a una profonda frattura. Né Giolitti sembrò capire, davanti alle prime mosse del movimento fascista, come questo avrebbe proceduto.
Ripenso a una sua frase famosa, quella dei vestiti che lui cuciva con la gobba, perché li faceva per un paese gobbo. In quella cruciale vicenda – come già notavo nel mio vecchio scritto su Cavour – il vestito restò nelle mani del sarto. E il paese si trovò a vivere il ventennio fascista. Non me la sento, in conclusione, di mettere Giolitti al fianco di Cavour.
Alcide De Gasperi si trovò a governare un’Italia ancora segnata dalla frattura di oltre vent’anni prima, ulteriormente alimentata dalla guerra e da quel forte sapore di guerra civile in cui la stessa Resistenza, sul piano interno, aveva finito per tradursi. Guidando un partito cattolico, era di sicuro connotato diversamente da Cavour, ma aveva con lui diverse analogie. Intanto, era similmente orientato da principi liberali e inoltre il contesto che aveva intorno ricordava per più versi i campi minati di Cavour.
Doveva muoversi avendo a destra una parte cospicua di borghesia italiana più reazionaria che conservatrice e fortemente nostalgica del fascismo; a sinistra, al di là di piccole rappresentanze di centro democratico e di sinistra moderata, un forte schieramento di socialisti e comunisti, nel quale prevaleva, per il futuro, la promessa di una vera e propria alternativa di regime. Analogia c’era anche per il contesto internazionale, nel quale anzi la situazione di De Gasperi era forse peggiore: il primo ministro dell’Italia sconfitta – come lui stesso notò parlando alla Conferenza di pace di Parigi – su null’altro sentiva di poter contare, se non sulla «personale cortesia» di chi lo ascoltava.
Ebbene, muovendosi in acque tanto difficili, De Gasperì riuscì ad aprire l’Italia alla vita democratica, ad ancorarla saldamente all’Occidente e addirittura a renderla protagonista dell’integrazione europea. Sul piano interno riassorbì una quota consistente della borghesia nostalgica entro le capaci volute del moderatismo democristiano, ma allo stesso tempo mantenne e anzi valorizzò la collaborazione con i partiti minori del centro.
Era la Democrazia cristiana, «partito di centro che guarda a sinistra» (così una celebre autodefinizione) e che, per questo stesso, ricordava almeno in parte il Connubio. Sul piano internazionale, da un lato seppe conquistare la fiducia degli Stati Uniti (anche se è vero che essi non avevano opzioni diverse per l’Italia), dall’altro compì il capolavoro di partecipare da socio fondatore alla creazione delle prima Comunità europea, quella del carbone e dell’acciaio, nel 1951. Di sicuro lo aiutò la solidarietà che si instaurò con Robert Schuman e con Konrad Adenauer in ragione della loro condivisa fede religiosa. Ma il risultato non è per questo meno rilevante.
Fu in questa cornice, fondata sul libero scambio e sulla conseguente accettazione della sfida della competitività sui mercati occidentali (rispetto ai quali gli anni dell’autarchia avevano fatto accumulare all’Italia un cospicuo ritardo) che l’economia italiana prese a crescere. E lo fece avvalendosi anche di una robusta industria di Stato, partecipe di primo piano, allora, del processo di modernizzazione.
Un dato è certo: quello di De Gasperi e dell’élite che con lui definì le direttrici future del paese fu un ruolo cavouriano, per certi versi ancora più cavouriano di quello di Cavour. Ricordiamoci che all’inizio il futuro da lui disegnato per l’Italia, occidentale, europeo, libero-scambista e ispirato all’economia sociale di mercato, non solo era condiviso da una sola parte degli italiani, ma la parte residua era decisamente contro e guardava alla sua alternativa. Anni dopo, e prima ancora della caduta del Muro di Berlino, la fede in quell’alternativa era caduta e il patrimonio dato all’Italia da De Gasperi divenne patrimonio comune. Per tutto questo considero De Gasperi l’unico statista, e politico, italiano collocabile alla stessa altezza di Cavour.