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 2023  novembre 10 Venerdì calendario

Il calcio libero nel manifesto di Ancelotti


L’altra sera Carlo Ancelotti ha descritto il successo del Real Madrid sul Braga come il trionfo del «vecchio e sano contropiede». Il giorno prima aveva invece sottolineato la libertà di movimento che è uso concedere a giocatori come Vinicius e Rodrygo per non imbrigliarne l’estro. Il discorso, espresso nel tono piacevole e non polemico che è proprio di Ancelotti, era esplicitamente rivolto agli allenatori di nuova generazione: secondo Carlo esagerano con le indicazioni relative alla fase di possesso palla, vincolando i giocatori in un modo che ne limita la creatività. È stato un uno-due che ha fatto vacillare i cultori del gioco di posizione – il più diffuso in quest’era storica culturalmente dominata da Pep Guardiola – e che ha definitivamente spezzato, se ancora c’era, il legame calcistico tra Ancelotti e il suo vecchio mentore Arrigo Sacchi. Nato come mix fra il rigore dell’allenatore di Fusignano e la bonomia di Nils Liedholm – entrambi suoi tecnici – Carlo si è progressivamente allontanato dal solco tattico di Sacchi, diventandone di fatto un eversore. La cosa amareggia un po’ Arrigo, ma il rapporto umano fra i due resta forte. Per fortuna volersi bene per le avventure vissute insieme conta più della disposizione di un centrocampo.
Ancelotti possiede il peso professionale e la bacheca per guidare il riflusso moderato dopo gli anni della rivoluzione. Sono tempi in cui la qualità intrinseca dei giocatori è tornata a essere l’argomento più forte, e per intrinseca si intende l’abilità tecnica individuale. Il dribbling per esempio, che è la forma più antica, veloce e spettacolare di creare una superiorità numerica laddove il vantaggio posizionale si ottiene con una lunga serie di passaggi (almeno 15, sostiene Guardiola). È facile l’obiezione che se hai in squadra i fuoriclasse del Real sia ovvio lasciar loro la libertà di seguire l’ispirazione, mentre se devi cavartela con un organico da zona salvezza un lavoro collettivo che nasconda le carenze dei singoli diventa fondamentale. Ma l’Ajax di Michels, il Milan di Sacchi e il Barcellona di Guardiola sono squadre passate alla storia perché questo lavoro collettivo veniva realizzato da undici campioni, e lo stesso Manchester City di Pep è una raccolta di figurine così costose da permettere ai suoi haters il sillogismo «vince perché ha Haaland come aveva vinto grazie a Messi». Non è così, ma discuterne è faticoso perché scarseggia l’onestà intellettuale. I risultatisti espongono i loro trofei esaltando le difese, i giochisti ribattono con i loro successi costruiti in attacco. Diventano però sgradevoli quando propugnano il valore etico diverso dei successi ottenuti, come se esistesse un modo buono e un modo cattivo di vincere. Qui occorre essere chiari e definitivi perché il modo cattivo è quello che va contro le regole, dal doping in giù. Se rispetti i codici, puoi vincere con quattro attaccanti oppure con sei difensori e andrà bene comunque. Nessuno avrà il diritto di dire a un difensivista che la sua vittoria vale meno, com’è successo in questi anni.
Tutti sostengono a parole che la bellezza del calcio consista nella possibilità di giocarlo in molte maniere, ma nel concreto sono in pochi ad accettarlo. Guardiola in questi anni ci ha fatto vedere costruzioni meravigliose in senso sempre offensivo, eppure la sospirata Champions vinta a Istanbul è stata ascritta ai miglioramenti difensivi: per carità, il discorso contiene qualcosa di vero, ma occorre una buona dose di perversione per sottolineare del Pep il lato distruttivo anziché quello costruttivo. Viceversa Gerard Piqué l’altro giorno ha criticato il Real Madrid – è la sua ragione di essere – dicendo che l’ultima Champions verrà dimenticata in quanto figlia di rimonte impossibili sulla superiorità delle avversarie. Non si rende conto, Piqué, che proprio per questo verrà invece ricordata per sempre: un trattato di resistenza umana e fredda genialità nei momenti chiave che è ciò che avvince e suscita l’emozione popolare. O forse crede che alla base di uno sport che ha miliardi di appassionati ci siano i dibattiti su 4-3-3 contro 3-5-2?
Il manifesto di Carlo Ancelotti verrà certamente ripreso da Max Allegri per dare una mano di modernità alla costruzione iperdifensivista della Juve vista a Firenze. La questione, ancora una volta, è il risultato. Con i cinque scudetti consecutivi vinti dopo la tripletta di Conte, Allegri aveva raggiunto il pantheon bianconero trovandolo un po’ freddino: dopo una simile serie di vittorie interne, ormai interessava solo la Champions. La decisione di esonerarlo in favore di Sarri era un messaggio chiaro, e cattivo verso Max: con questo gioco conservativo dominiamo in Italia ma non andiamo avanti in Europa, dove ci vuole una maggiore capacità offensiva. Un cambio di stagione che, complici anche altri fattori, ha depresso la Juve al punto da interrompere la striscia di nove scudetti senza fare progressi in campo internazionale. Anzi. E dunque Allegri è stato richiamato perché si sa esattamente che cosa porta: la competitività italiana. Per quella in Champions si vedrà. Con queste premesse è logico che De-Ligt abbia fatto spazio a Bremer, e che Max abbia chiesto fino all’ultimo Lukaku, anche al posto di Vlahovic. Il primo è funzionale alla difesa bassa nella propria area, che è tornata a essere la specialità della casa. Il secondo quando sta bene fa reparto da solo e permette alla squadra di salire rapace: l’ideale per Allegri. Le perplessità di Firenze nascono dal fatto che del mantra “difesa e ripartenza” sia stata declinata solo la prima parte: dopo il rapido gol di Miretti, di ripartenze nemmeno l’ombra. Allegri ha portato a casa tre punti importanti difendendosi in un modo che la Fiorentina, stolida nel suo procedere soltanto per cross, non avrebbe risolto nemmeno giocando fino all’alba. Ma sfruttando il «vecchio e sano contropiede» il Real Madrid ha tirato 18 volte contro la porta del Braga. Per aderire a quell’ideologia le 4 conclusioni della Juve a Firenze sono poche.