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 2023  novembre 10 Venerdì calendario

La metropoli è superata

L’architetto Mario Cucinella, 63 anni, è stato a Torino per Artissima e, prima di imbarcarsi per il Giappone dove sta realizzando il Padiglione Italia per l’Expo di Osaka 2025, ci ha raccontato la sua visione delle città contemporanee.Come ha trovato Torino?«La conosco da quando lavorai al progetto della conversione del Lingotto con Renzo Piano e la trovo un modello per come è cambiata nel tempo, e penso continuerà a farlo. La pedonalizzazione di piazza San Carlo, per esempio, con la passeggiata dalla Stazione Porta Nuova a piazza Castello è unica. In certi momenti, come per la settimana dell’arte, diventa poi un polo d’attrazione culturale internazionale».Sono solo momenti effimeri?«No, è una strategia che può dare grandi frutti nel tempo. Spesso si pretendono dei risultati subito, ma ci vuole pazienza. La mancanza di programmazione è un guaio del Paese e troverei lungimirante se Torino si sapesse distinguere».Quale futuro immagina per Torino?«Mi pare che si connoti come una città medio-grande, verde, viva e vivibile, con eventi continui di alto livello, dalla cultura alla musica, dalla tecnologia allo sport. Un sondaggio tra i cinesi under 30 ha rivelato che il loro modello di vita è quello italiano. Torino lo rappresenta benissimo, soprattutto se decide di puntare sulla risorsa che dopo la pandemia è la più richiesta in tutto il mondo: la qualità della vita delle persone».Come si fa in pratica?«Bisogna investire in parchi ben tenuti e sicuri, asili che vadano incontro agli orari delle famiglie, trasporti efficienti e in tutte quelle politiche che rendono una città accogliente. Dopo il Covid in molti non vogliono più ammazzarsi di lavoro per pagare debiti contratti per acquistare oggetti che non hanno il tempo di usare. La politica dunque può fare la differenza nello sviluppo della città».Non lo fa abbastanza?«Non ci racconta che futuro vuole. In tutte le città, per esempio, ci sono tanti edifici abbandonati. Per Torino penso al Palazzo del lavoro o a quello delle esposizioni. Ora dovrebbero riqualificarli, ma non è neutrale averli abbandonati per anni. Ogni città dovrebbe fare un piano di quali edifici ristrutturare, quali abbattere e ricostruire, quali vendere. Spesso invece si tiene il vecchio e non si fa nulla di nuovo, penso alle aree industriali o agli edifici scolastici. La Germania ha una legge per limitare il consumo di suolo, ma ricostruisce anche molti edifici».La vicinanza con Milano è un problema o un’opportunità per città come Torino e Bologna?«Il futuro sarà delle città medie, che potranno assicurare un’alta qualità della vita e allo stesso tempo eventi culturali, occasioni d’incontro e di vicinato. Perché ciò avvenga però occorre investire per tempo, altrimenti Milano diventerà un alibi oltre che l’unico centro di una grande periferia padana».Crede a questo scenario?«Si è parlato di MiTo, ma credo che Milano e Torino abbiano storie e obiettivi diversi, così come Bologna. Una collaborazione è possibile, ma il capoluogo piemontese dovrebbe fare più rete con i suoi territori naturali, dalle Langhe, ai laghi, alle Alpi. Un sistema economico, culturale e turistico non indifferente, senza contare la vicinanza al mare. Il miraggio della grande metropoli padana è passato di moda, ora bisogna capire che ogni area ha delle caratteristiche proprie su cui lavorare. E se tutti pensiamo a Torino, Bologna, Genova o Firenze, già le immaginiamo. Sono realtà uniche al mondo, al centro di territori che tutti ci invidiano, e non hanno certo bisogno di Milano per esistere».Il modello Milano sta scricchiolando?«Sì e no. Ci sono metropoli molto più in difficoltà, ma certamente sugli affitti e sulla sicurezza si notano dei problemi perché si paga la bulimia di una crescita improvvisa della città. I sogni della finanza e dello sviluppo immobiliare stanno tramontando anche lì. A Milano però c’è stata una combinazione tra politica che ascolta e imprenditoria che rischia da tenere ad esempio. La domanda è se la stessa situazione si possa verificare altrove, magari declinata diversamente».In che modo per esempio?«Fregandosene di Milano, che ha il suo modello da seguire e da migliorare, e cercando il proprio, più piemontese per Torino, più emiliano per Bologna. Ci sono reti da tessere. Il futuro delle città non sarà solo velocità e soldi, ma anche lentezza e paesaggio. Torino e Bologna hanno la collina in città, un’occasione da cogliere. Servirebbe una nuova generazione di amministratori».Ha ancora senso progettare grattacieli, come la sua Torre Unipol che sta per finire in Porta Nuova a Milano?«In centri direzionali come quello può averlo. Unipol è un grande gruppo e ha bisogno di un luogo di incontro tra tutte le sue aree. Penso così che il grattacielo sarà abitato, anche se non densamente. Certo nelle città esiste un problema di traffico legato ai movimenti casa-lavoro-scuola e lo smart working ci ha rivelato come affrontarlo almeno in parte».Il suo non sarà l’ultimo grattacielo dunque?«Non credo, ma non so perché ce l’abbiano con i grattacieli. L’importante è farli in un certo modo e nei posti giusti. Torino per esempio ne ha due, oltre la Mole, ma non capisco perché siano uno da una parte e uno dall’altra della città. Sarebbe meglio concentrarli per motivi sia estetici sia urbanistici».Come procede il suo Milano innovation district, il quartiere sulle ceneri di Expo?«Ci vorranno dieci anni, ma io seguo solo la parte paesaggistica, mentre gli edifici competono ad altri. Sarà una città della conoscenza, verde e smart, caratteristiche di cui si parla tanto ma difficili da realizzare».Sta lavorando anche al Padiglione Italia per Osaka 2025. Gli expo servono ancora?«Una volta ci si andava per scoprire le innovazioni, ora sono un luogo di incontro tra Paesi e un’occasione di scambio di conoscenze e di affari. Sul piano urbanistico se Lisbona e Siviglia sono risultati un disastro, Londra ha saputo costruire un quartiere, Dubai ci sta provando, Milano fatica perché l’area è molto grande, anche se si è data il tempo e i mezzi per farcela. A Osaka hanno realizzato un pezzo di isola artificiale sul mare e puntano a lasciarvi un quartiere residenziale».La sua città preferita?«Pur palermitano, a Bologna mi sento a casa. Copenaghen è un esempio di rinnovamento nel rispetto della tradizione. Mi meraviglio sempre dei posti che riescono a mantenere un’identità, come Lugu Lake in Cina, scoperto grazie a mia moglie che è cinese. Così come mi dispero per le città finanziarie senza cultura, come Perth in Australia».Cosa le hanno insegnato i suoi maestri Giancarlo De Carlo e Renzo Piano?«Da De Carlo ho appreso nel tempo a leggere i luoghi e a capire prima di agire; da Piano l’azione senza paura, il seguire le proprie idee e la capacità di buttare via tutto e ricominciare. Il suo progetto a Numea in Nuova Caledonia è stata una svolta nel suo lavoro e per me un grande esempio». —