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 2023  novembre 10 Venerdì calendario

Biografia di Barbra Streisand

Prevista per il 2017, poi slittata al 2019 e oggi finalmente nelle librerie, My Name Is Barbra, la monumentale biografia di Barbra Streisand, è un misto di tante cose – orgoglio jewish, pettegolezzo hollywoodiano, politica, mariti, riconoscimenti e sì, anche cani clonati – ma è soprattutto la prova che la ragazza ebrea senza padre, nata e cresciuta a Brooklyn, sarebbe potuta diventare qualsiasi cosa, tranne che una diva. Se lo è diventata, è perché lo ha voluto. Tutto parte dalle unghie: quando Streisand è un’attrice alle prime armi, la madre le suggerisce di prendere lezioni di dattilografia per diventare segretaria nel sistema scolastico di New York. In segno di rifiuto, invece di tagliarsele per poter battere a macchina, se le fa crescere, lunghissime. Il resto è storia, anche se ora ammette che la capacità di scrivere a macchina avrebbe potuto rendere un po’ più facile la stesura di questa biografia.
Dagli uomini ai progetti, il filo rosso della sua vita è questa voglia di fare cose, di farle accadere, di forgiare la propria esistenza secondo l’immagine che lei stessa ha nella sua testa, di manifestare la propria vita. «Ho avuto una visione», scrive a un certo punto «e a volte penso di averla voluta così tanto da averla fatta diventare realtà». Non importa di cosa stia parlando. Forse di quando convince Robert Redford ad accettare il ruolo di Hubbell in Come eravamo, dopo che lui l’ha rifiutato tre volte, convinto che la parte sia troppo superficiale, una specie di toy boy. «Volevo che Robert fosse felice, quindi ho detto a Sydney (Pollack, il regista, ndr): “Dagli tutto ciò che vuole. Scrivi più scene per rafforzare il suo personaggio. Rendiamo i due ruoli equi"». Il risultato lo sappiamo. Oppure quando racconta della storia d’amore – breve, ma paparazzatissima – con Pierre Trudeau, ex primo ministro del Canada e padre dell’attuale premier, Justin. Il primo incontro avviene nel 1968 alla premiere di Funny Girl. Lei però lo conosce già, perché mesi prima ha letto un articolo su di lui. «All’epoca avevo persino detto a un amico: “Questo è il tipo di uomo con cui mi piacerebbe uscire”». Oppure quando racconta della sua testardaggine per far diventare realtà il film Yentl, una vicenda che si interseca con l’altro grande tema del libro: il suo essere diversa, mai completamente assimilata, troppo poco bella, bionda o con i capelli troppo poco lisci. Con il naso troppo grosso e i ricci sempre troppo ricci. Sempre troppo ebrea.
L’identità ebraica è il vero filo conduttore di My Name Is Barbra: la aiuta a trovare un terreno comune con un candidato politico (Bella Abzug, femminista ebrea americana eletta al Congresso nel 1970, una delle prime a battersi per i diritti dei gay), un marito (Elliot Gould, sposato nel 1963, divorziato nel 1971, padre del suo unico figlio, Jason) e il ruolo di carriera, tanto che di Fanny Brice, protagonista di Funny Girl scrive: «Entrambe avevamo madri ebree la cui unica preoccupazione era che mangiassimo e che trovassimo marito».
«Streisand ha padroneggiato l’arte di essere ebrea. Ha preso la sua ebraicità e l’ha trasformata in una metafora, che è la metafora dell’alterità», ha scritto lo storico del cinema Neal Gabler nel suo libro Barbra Streisand: Redefining Beauty, Femininity, and Power. Il primo incontro con Yentl the Yeshiva Boy dello scrittore americano di origine polacca vincitore del Premio Nobel Isaac Bashevis Singer è del 1968, quando Streisand legge per la prima volta il libro, rimanendo incantata dalla storia di una giovane donna ebrea nella Polonia del diciannovesimo secolo che finge di essere un uomo per sfuggire al matrimonio e proseguire lo studio della Torah. «Dopo aver letto l’incipit - “dopo la morte del padre…” - non mi sono più fermata. Mi sono identificata con Yentl».
Dieci anni dopo incomincia a proporlo agli Studios di Hollywood, ricevendo zero interesse. Per lei Yentl è una storia «su una donna che vuole di più dalla vita che rammendare calzini e pulire casa», ma per i produttori con cui parla Yentl è solo una storia ebrea, troppo ebrea. «Anche se molti di loro erano ebrei, non volevano rivedersi sullo schermo. A quell’epoca, a Hollywood, raramente i dirigenti ebrei degli Studios sposavano donne ebree: per loro l’importante era assimilarsi. Ancora oggi, in qualche modo, gli ebrei sono sempre “l’altro”, il capro espiatorio, incolpati continuamente dei mali del mondo. Quando i dirigenti di Hollywood non sono stati capaci di andare oltre al tema jewish di Yentl e a comprendere il tema più generale della equità di genere (…) la loro vera preoccupazione era inespressa, ma potevo intuirla. Non volevano attrarre attenzione sugli ebrei e sul loro mondo. Gli ebrei erano ancora considerati troppo diversi, alieni, soprattutto oggi, come ieri e come sarà sempre. (…) Sono sempre stata orgogliosa della mia eredità ebraica. Non ho mai tentato di nasconderla quando sono diventata attrice. È essenziale per quello che sono. E volevo realizzare questo film su una donna ebrea intelligente che rappresenta così tante delle qualità che ammiro».
Yentl vede finalmente la luce nel 1983, dopo che Streisand acconsente alla cosa che aveva giurato di non voler fare in questo film: cantare. Vende la sua voce per realizzare un progetto a cui tiene. Lo produce, lo scrive, lo dirige e lo interpreta. Non è un capolavoro, le critiche ancora oggi sono più negative che positive, e molte hanno a che fare con l’eccessivo perfezionismo di alcune inquadrature. Eppure nel 1984, oltre alle quattro candidature per miglior attrice, miglior attore, migliore colonna sonora originale e migliore canzone originale, Barbra Streisand diventa la prima donna a essere nominata e a vincere un Golden Globe come miglior regista. La seconda, nel 2021, sarà Chloé Zhao per Nomadland. Trentasette anni dopo.