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 2023  novembre 09 Giovedì calendario

Il partner che cerca l’America

Le difficoltà e anche l’imbarazzo politico-diplomatico dell’Occidente sono riassunti in una riga del comunicato diffuso ieri dai ministri degli Esteri del G7, che si sono riuniti a Tokyo. Eccola: «Mettiamo in rilievo il diritto di Israele di difendere se stessa e il suo popolo, nel rispetto del diritto internazionale...». Il testo non accenna alle tensioni tra Joe Biden e Benjamin Netanyahu precisamente su questo punto. Fin dall’inizio del conflitto il presidente americano ha chiesto al premier israeliano di salvaguardare la popolazione di Gaza, proprio «nel rispetto del diritto internazionale».
Le immagini, le testimonianze in arrivo dalla Striscia e, non ultimo, la denuncia del Segretario generale dell’Onu, António Guterres, ci mostrano ogni giorno come Netanyahu non abbia accolto l’appello di Biden. Non solo. Il governo di Tel Aviv ha lasciato cadere anche le proposte di Antony Blinken: brevi «pause umanitarie» per consentire l’afflusso di viveri e medicinali nel territorio assediato. A Tokyo i ministri di Giappone, Regno Unito, Germania, Francia, Italia e Canada hanno preso atto del passaggio a vuoto del Segretario di Stato americano.
Un mese di guerra a Gaza ha già prodotto un agghiacciante bilancio di morti e feriti, sommando la strage compiuta da Hamas il 7 ottobre e la furente reazione israeliana. Si vede all’orizzonte un modo per uscirne? No, al momento. La nota del G7 richiama i fondamenti del diritto internazionale. Ma, da questo punto di vista, la guerra di Gaza ha completato la demolizione di quei principi, cominciata il 24 febbraio 2022, con l’aggressione putiniana all’Ucraina. Stiamo parlando, sostanzialmente, di tre documenti. Innanzitutto la «Carta delle Nazioni Unite», pubblicata il 24 ottobre del 1945 e ora sottoscritta dai 193 Paesi che aderiscono all’Onu, ma non dalla Palestina, ammessa solo come «osservatore». Poi abbiamo la Convenzione di Ginevra (12 agosto 1949), firmata, in tempi diversi, sia dagli israeliani che dai palestinesi. Infine va ricordato lo «Statuto di Roma» (17 luglio 1998), che istituisce il Tribunale penale internazionale, con sede all’Aia, nei Paesi Bassi.
Da due anni a questa parte sono le norme più evocate dalla diplomazia internazionale, ma anche le più difficili da applicare quando sono chiamate a sciogliere i dubbi cruciali. Chi dovrebbe punire i crimini commessi dall’esercito russo in Ucraina? Esiste un modo legale per incriminare i vertici di Hamas? «Sì», è la risposta dello «Statuto di Roma»: in entrambi i casi deve intervenire il Tribunale Penale internazionale. Ancora: è legittimo bombardare la popolazione civile per colpire obiettivi militari, come sta facendo il governo israeliano? «No», secondo le Convenzioni di Ginevra.
Il problema è che, alla prova drammatica dei fatti, il «diritto internazionale», già logoro in verità, si è afflosciato su se stesso. Il Tribunale penale internazionale dell’Aia, per esempio, non è riconosciuto né dai russi, né dagli americani, né dagli ucraini, né dagli israeliani. Come può operare davvero a Mosca, a Gaza, a Tel Aviv? Le quattro Convenzioni di Ginevra prevedono norme eccellenti, cariche di umanità: una vetta del pensiero giuridico. Peccato che non siano previste sanzioni di alcun tipo per chi le viola.
Lucrezia Reichlin, martedì 7 novembre, ha scritto sul «Corriere» che l’ordine economico mondiale uscito dalla Seconda guerra mondiale «non regge più». Un discorso simile forse vale anche per buona parte del diritto internazionale. Ma la sequenza Kiev-Gaza sta mettendo in crisi anche quello schema informale che fin qui ha assicurato la tenuta degli equilibri geopolitici. Il perno di questa «governance materiale» è tuttora l’egemonia americana in una larga area del pianeta. Nei discorsi ufficiali Joe Biden parla ancora dell’America come della «nazione essenziale». Tuttavia da tempo Washington sta cercando partner con cui cogestire almeno le crisi più gravi, dalle pandemie al «climate change». Il primo pensiero degli americani è rivolto alla Cina. Più volte Biden ha sollecitato Xi Jinping a temperare l’aggessività di Putin in Europa e quella dell’Iran nel Medio Oriente. Ma la calcolata inazione di Pechino ha solo complicato le cose. Blinken, poi, ha cercato figure in grado di interagire con l’islamismo radicale. Per esempio il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che si è, però, confermato una variabile imprevedibile: mesi fa mediava sul grano tra Russia e Ucraina; ora continua a schierarsi con Hamas, nonostante il 7 ottobre. Infine la sponda europea. Il G7 di Tokyo ha mascherato le divisioni nell’Alleanza atlantica: nell’assemblea dell’Onu la Francia ha votato a favore della mozione presentata dalla Giordania per spingere Israele a fermare gli attacchi. Regno Unito, Germania e Italia si sono astenuti. Gli Usa, che si sono espressi contro pur di non abbandonare Israele, si sono ritrovati isolati come ai tempi dell’invasione in Iraq.
Attenzione, però: il contributo alla coesistenza pacifica degli altri possibili blocchi è praticamente nullo. Della Cina si è già detto. Di Erdogan anche. La presidenza indiana del G20 si avvia a conclusione con risultati politici trascurabili. Nel gruppone degli impalpabili viene spesso inserita anche l’Unione europea, «sempre assente». È un giudizio ingeneroso se ci si riferisce alle istituzioni di Bruxelles. L’Alto rappresentante per la politica estera e la difesa comune, Josep Borrell, oggi è poco più che un rappresentante di buone intenzioni. Prima i 27 Paesi Ue dovrebbero trasformarlo in una figura simile al Segretario di Stato Usa. Solo a quel punto sarebbe giusto criticarlo.