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 2023  novembre 08 Mercoledì calendario

Intervista a Rita Gonelli

Se chiude gli occhi, rivede quel giorno in cui «degli uomini» vennero a casa sua: «Mia mamma sbiancò, si coprì la faccia con le mani e corse a chiudersi in camera». Rita Gonelli aveva compiuto 2 anni da un paio di mesi, e suo fratello Raffaele era ancora in fasce, quando capì che il loro padre non sarebbe mai più ritornato. La scienza spiega che il primo ricordo si fissa nella memoria intorno ai 3 anni, ma oggi le lacrime testimoniano per lei: ricorda. E come potrebbe aver dimenticato? Il capitano pilota Giorgio Gonelli, nato a Ferrara il 29 aprile 1930, non fu solo trucidato con altri 12 commilitoni a Kindu, in Congo, fra l’11 e il 12 novembre 1961, durante una delle prime missioni di pace delle Nazioni Unite: «Vennero anche cannibalizzati. A uno dei 13, che non si decideva a morire, strapparono il cuore e lo gettarono in pasto alla popolazione inferocita. Mani, braccia e altri resti umani l’indomani furono venduti al mercato».
In 36 anni di lavoro al ministero degli Esteri, Rita Gonelli ha proseguito l’opera del padre, brutalmente interrotta durante la guerra civile congolese che divampò dopo l’indipendenza dal Belgio e culminò con il tentativo di secessione del Katanga e l’assassinio del primo ministro Patrice Lumumba: «Ho cercato di portare la pace con la cultura. È importante. Nessuno ci pensa». Lo ha fatto in 56 Paesi. Ha ricostruito il ponte di Mostar distrutto dalla guerra in Bosnia. Ha messo in sicurezza il Museo nazionale iracheno a Baghdad e i buddha di Bamiyan, poi distrutti dai talebani. Ha dato riparo all’Esercito di terracotta scoperto nel 1974 a Xi’an, in Cina. Ha restaurato la chiesa della Natività a Betlemme, il Museo d’Egitto al Cairo, l’Angkor Wat in Cambogia, il centro storico dell’Avana.
Che cosa guidò suo padre in Congo?
«Il dovere. Era alla sua seconda missione laggiù. Pilotava uno dei due aerei bianchi con le insegne dell’Onu. Gli equipaggi erano disarmati per decreto del ministro della Difesa, Giulio Andreotti. Con loro, un medico della Croce rossa. Decollarono da Leopoldville. Portavano aiuti agli affamati e regali ai bimbi per l’imminente ricorrenza del Natale».
Invece che accadde?
«Atterrati a Kindu, i caschi blu malesi di stanza all’aeroporto li condussero fuori dalla base militare e li lasciarono nella foresteria a ridosso della giungla, dove vennero assaliti da 800 ribelli, che li trascinarono attraverso le strade del paese. Fu una vera e propria via crucis».
Perché dice questo?
«Lungo il percorso, li massacrarono di botte con i calci dei fucili. Mio padre era religiosissimo. Secondo alcuni testimoni, chiese di potersi fermare davanti a un’edicola mariana eretta dai missionari, forse un estremo tentativo per impietosire gli aguzzini. O per raccomandarsi alla Vergine. Finì con una carneficina».
Chi le ha detto che a uno dei 13 avieri venne strappato il cuore?
«Me lo confessò alla fine degli anni Novanta un ex ambasciatore, amico di papà, che aveva lavorato alle Nazioni Unite. Il mio ex marito era in Aeronautica. Un colonnello di Frosinone gli raccontò che l’unica cosa di mio padre che fu ritrovata era una piccola croce ottagona melitense. È sicuramente vero: faceva parte del Sovrano Ordine di Malta».
Come si era congedato da sua madre?
«Non appariva tranquillo, quasi avesse un presentimento. Scelse di andare in missione a novembre per poter stare con noi a Natale. Ogni giorno spediva dall’Africa a me e a Raffaele una cartolina con immagini di animali: il leone, la giraffa, la zebra... Scriveva: “Qui avete tanti fratellini dagli occhi grandi. Sono buoni. Un giorno dovrete aiutarli”. Quando lo uccisero, lui aveva 31 anni e mia madre 27. Sognava di mettere al mondo 10 figli».
Gli autori della strage chi furono?
«Il tribunale internazionale a Parigi ne condannò soltanto tre, ma rimasero liberi di lasciare il Congo. Non hanno mai pagato per i loro orribili delitti. Ho cercato di ottenere il fascicolo del processo: negato. E in Italia gli atti sono segretati».
È assurdo.
«Silenzio anche dalla presidenza della Repubblica. Chiesi udienza al Quirinale: nessuna risposta. L’unico che fece qualcosa fu don Emireno Masetto, vicentino di Schio, il cappellano militare all’epoca in servizio presso l’aerobase di Pisa da dove partirono i nostri. Contro il parere dei superiori, si recò da solo a Kindu per assumere informazioni dirette. Riuscì a parlare con un poliziotto, che lo condusse a una fossa comune dove a suo dire erano stati sepolti i resti dei 13 assassinati. Al rientro, il sacerdote fu immediatamente rimosso e assegnato ad altro incarico. Sono sparite persino due enormi zanne d’elefante che portò dal Congo e che avrebbero dovuto ornare il sacrario nazionale di Pisa costruito dall’architetto Giovanni Michelucci in memoria degli eroi, le hanno rubate».
Suo padre riposa lì?
«Dicono che sotto la lapide ci sono le spoglie sue e dei compagni di sventura. Ma come faccio a crederci? Prego davanti a un’iscrizione. Però mio padre è sempre con me. Resta il mio riferimento, il mio ideale, il mio mito». (Piange).
Sospetta un complotto?
«Non so più che cosa pensare. I soldati malesi dell’Onu a Kindu non furono toccati. Perché vennero ammazzati solo i 13 italiani? Perché i loro colleghi dislocati a Leopoldville li lasciarono per un giorno in balia dei cannibali? Perché solo nel 1994 il Quirinale concesse a papà la medaglia d’oro al valor militare? Il governo stenta persino a comunicarmi la data delle commemorazioni ufficiali».
Incuria o dimenticanza?
«La seconda, temo. Nel nuovo Museo storico dell’Aeronautica militare di Vigna di Valle, la missione di Kindu è liquidata con una banale citazione. Ho mandato l’immagine al responsabile, che conosco. “Mi sembra corretta”, ha replicato. Ho dovuto rispondergli: no, guarda, tu forse non conosci la storia, devi studiarla».
Avevo solo 2 anni, eppure ricordo
tutto. Mia madre morì nel 2012
convinta che tornasse dal Congo
Gli assassini furono lasciati liberi
Anche l’Onu ha dimenticato Gonelli?
«No, al Palazzo di Vetro di New York l’eccidio viene ricordato spesso. A papà fu attribuita la medaglia d’oro Dag Hammarskjöld, intitolata al segretario generale svedese, premio Nobel, morto anch’egli in Africa, precipitando con l’aereo durante un intervento di peacekeeping. Se pure Kofi Annan nel 2001 ricevette il Nobel per la pace, lo si deve alle missioni internazionali dell’Onu, fra le quali l’unica italiana resta quella di Kindu».
Perché fu scelto proprio suo padre per la disgraziata spedizione?
«Era giovane, ma esperto. Aveva pilotato gli aerei con i soccorsi del Sovrano Ordine di Malta in occasione del terremoto di Agadir in Marocco e durante la crisi del Canale di Suez in Egitto».
Di che hanno vissuto moglie e figli?
«Ci diedero una piccola pensione di reversibilità. Pare che l’Onu avesse stanziato due assegni, ma non sono mai arrivati. Dovemmo vendere alcuni immobili. A 45 anni di distanza ci hanno riconosciuto due modesti vitalizi in base alla legge sulle vittime di stragi, approvata dopo gli attentati di Nassiriya».
Qualcuno vi ha chiesto scusa?
«Mai. I colleghi adoravano mio padre, erano gentili, premurosi, ma non potevano fare nulla. Si capiva che obbedivano alla consegna del silenzio giunta dall’alto. Solo agli inizi del Duemila seppi com’erano andate davvero le cose».
È mai stata a Kindu?
«Un ambasciatore me lo propose, ma non ebbi il coraggio di partire».
So che anche suo figlio, Giorgio Gressani Gonelli, 31 anni, indossa la divisa.
«Avrebbe voluto seguire l’esempio del nonno, di cui porta il nome, ed entrare in Aeronautica. L’ho scongiurato di non farlo. Così è diventato capitano dell’Esercito, commissario del corpo speciale ausiliario del Sovrano Ordine di Malta. Studia scienze della pace, un corso di laurea promosso da papa Francesco, presso la Pontificia università Lateranense».
Sarebbe giusto che per il capitano pilota Giorgio Gonelli venisse avviato il processo di beatificazione, non crede?
«Non solo per mio papà: per tutti i 13 caduti. Sono martiri. Lo ha suggerito anche don Francesco Capolupo, cappellano militare della 46ª Brigata aerea, che cura il sacrario di Kindu a Pisa».
E che esito ha avuto la proposta?
«Dal momento in cui l’ha formulata, non riesco più a rintracciarlo. Lo mandano sempre in missione».
Ma le famiglie delle altre vittime non dicono nulla?
«Le definirei agnostiche. Non vogliono grane. Penso che il loro stato d’animo, comprensibile, sia questo: è accaduto, abbiamo sofferto tanto, ora basta».
È sorprendente che quei tragici giorni le siano rimasti impressi nella mente.
«Lo so, la mia tenera età avrebbe dovuto impedirmi di fissarli nella memoria. Eppure io ricordo. Ricordo tutto. Vedo ancora mia madre che telefona di continuo all’aeroporto militare di Pisa per chiedere di suo marito. Fino alla mattina del 16 novembre non smisero di rassicurarla: gli aviatori erano salvi e sarebbero stati presto liberati. Invece all’ora di pranzo la radio diffuse la tragica notizia. Degli uomini bussarono alla nostra porta nel pomeriggio: erano in divisa. Le sembrerà impossibile, mia madre si appoggiava a me, ero io a dover tranquillizzare lei, come se fossi una figlia adulta. Un’esperienza terribile».
Come definirebbe la vita che vi toccò da quel giorno in avanti?
«Ingiusta. La mamma non ha mai creduto che suo marito fosse stato ucciso. Per lei non era vero, semplicemente. Sino alla fine, lo ha visto entrare dalla porta della nostra casa sulle colline bolognesi. Morì nel 2012 e anche nell’ultimo giorno chiese: “Ma dov’è il mio Giorgio? Che cosa gli è accaduto?”».