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 2023  novembre 08 Mercoledì calendario

Trentasei grandi architetti si raccontano a Stefano Bucci

Partiamo da un grande classico contemporaneo, Le Corbusier, dalla sua definizione di architettura formulata nel 1955: «Fare architettura è come fare una creatura: essere riempito, riempirsi, esplodere, esultare, restando freddi in mezzo a circostanze complesse, diventare un cane contento». Impresa esaltante: l’architettura è notoriamente l’atto creativo che più influenza le nostre vite quotidiane con gli edifici, la gestione degli spazi pubblici, gli interventi nei centri e negli edifici storici.
Inevitabile che questa materia politica e civile appassioni un giornalista (forse architetto mancato, chissà) diventando il tema di fondo – in musica si direbbe un basso continuo – della sua produzione. Stefano Bucci, firma culturale del «Corriere» e de «la Lettura», ha raccolto interviste e incontri con 36 protagonisti/e internazionali dell’architettura (L’architettura ha tante anime. Conversazioni, in uscita domani per Allemandi) apparsi sul quotidiano e nel supplemento tra il 2004 e il 2023. Bucci premette in incipit che nei suoi incontri «manca il lato tecnico, manca la teoria, manca il gergo degli “addetti ai lavori”, mancano i particolari costruttivi». Ed è un gran bene perché le sue curiosità coincidono con quelle di noi lettori e lettrici normali, privi di tali strumenti. Si va (in ordine alfabetico) da David Adjaye, famoso per il National museum of african-american history and culture di Washington, a Cino Zucchi (suo il centro direzionale Nuvola del Gruppo Lavazza a Torino) passando (solo alcuni nomi) per Renzo Piano, Massimiliano Fuksas, Zaha Hadid, Gae Aulenti, Jean Nouvel, Paolo Portoghesi, Arata Isozaki, Stefano Boeri, Franco Purini. L’assenza di tecnicismi permette a Renzo Piano, per esempio, di proporre una sua definizione di bellezza: «Una di quelle parole che vanno usate con grande attenzione, come silenzio, una parola che svanisce appena la evochi. Una parola che purtroppo ci è stata rubata dalla società dei consumi che l’ha trasformata in qualcosa di frivolo, inutile, superficiale». Fuksas (conversazione del 2004) racconta il profondo legame con il suo Centro della Pace di Jaffa («perché non è solo “estetica”»), riflessione che oggi appare addirittura profetica.
Adjaye ammette le responsabilità dell’architetto sostenendo che «il più importante problema dell’architettura è quello di rimanere all’interno del cuore delle persone, la luce non deve illuminare solo lo spazio architettonico ma anche il cuore degli uomini. Come architetto penso che l’architettura debba far percepire la gioia di vivere». Certo, vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Ma questa è l’aspirazione. Frank O. Gehry ha un metodo, diciamo, maieutico per aiutare i giovani architetti che lo hanno preso a modello ed evitare loro il successivo rito dell’uccisione metaforica del padre: «Quando mi capita di incontrarne metto la mia firma su un foglio di carta, poi faccio mettere la loro e dico “non copiate la mia, date dignità alla vostra”».
La riflessione di Jean Nouvel andrebbe imparata a memoria da tanti sindaci italiani felici per i numeri del turismo di massa e quindi un po’ «disattenti» sui piani del commercio e della qualità dei negozi: «Voglio città sempre diverse una dall’altra. Voglio città uniche per fantasia, poesia, bellezza. Purtroppo però ci troviamo davanti a città che sembrano tutte shopping center con brutte luci, brutte strade, brutti colori»
Frank Gehry e i giovani
«Metto la mia firma su un foglio, poi gli faccio fare la loro: non copiate la mia, dico, innalzate la vostra»
Nel 2011 il vocabolo sostenibilità non era ancora entrato nell’uso quotidiano quanto lo è oggi, ma Stefano Boeri già spiegava parlando dell’imminente 2015: «L’orto dell’Expo vuole proporre anche un nuovo rapporto tra sfera urbana, sfera rurale e sfera naturale che veda le tre differenti sfere scambiarsi risorse e opportunità, senza che la prima, quella della città, continui a schiacciare e a dominare le altre due».
Franco Purini, nel 2006, puntava il dito sulla situazione dell’architettura italiana: «In Olanda, a trent’anni, un architetto ha già realizzato almeno un progetto importante. In Italia quello stesso giovane sarebbe ancora in attesa di una possibilità». Sono passati 17 anni e siamo ancora a quel punto. E a quegli stessi giovani sarebbe utile ripassare (testo del 2012) la lezione di Gae Aulenti su come si affronta l’intervento su un pezzo storico: «Tutto per me comincia sempre con un’analisi furiosa dell’edificio e del suo significato. La prima cosa è ritrovarne la funzione senza snaturarne la storia». Dunque nessuna presunzione, la capacità di mettersi al servizio culturale di ciò che si ha tra le mani.
Arata Isozaki (per le note vicende riportate dalle cronache non vedremo mai la sua avveniristica pensilina progettata per i Grandi Uffizi a Firenze) nel 2004 avvertiva: «L’architetto non deve mai essere un politico, non deve mai progettare pensando a tattiche o a strategia di potere. Deve inseguire prima di tutto i suoi sogni, sempre e comunque. Anche a costo di doversi scontrare con la realtà». Viene in mente per analogia la celeberrima esortazione di Pier Paolo Pasolini al direttore della fotografia Tonino Delli Colli durante le riprese di Accattone: «Non abbia paura che la luce sfondi, facciamolo questo carrello contro natura!».
Mettendo insieme tutte le tessere del libro (giornalistico, certo, ma unitario come un saggio per l’unico solco in cui procede) si ha la conferma di quanto davvero l’architettura sia importante per tutti noi, ci renda più o meno disposti a condividere lo spazio con gli altri e quindi a dialogare. Cioè a essere felici.