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 2023  novembre 08 Mercoledì calendario

Nella cabina delle fototessere

Si rientra nella cabina magica e sarà uno dei pochi momenti in cui abbandoneremo il nostro telefono perché lì dentro si scattano sogni e memorie. Non serve un selfie per portarsele via, c’è di meglio: una striscia di croccanti fototessere. Lo spazio per realizzarle si è preso persino più della fantasia, ha allargato l’immaginazione e adesso si rinnova con 150 esemplari sparpagliati per l’Italia dal prossimo anno.
La prima scatolona per le foto automatiche si perde nella storia tra il 1920 e il 1928, tra Parigi e New York, in una serie di complicati modelli che avevano ancora bisogno di un addetto per estrapolare facce e sorrisi. Poi, nell’autunno del 1926, al 1659 di Broadway, New York, il prototipo dell’istantanea viene installato grazie ad Antatol Josepho, un tizio cresciuto in Siberia e innamorato del selvaggio west, dove tutto era possibile nell’età dell’oro, prima del crack, quando ogni momento valeva la pena di essere fissato, anche per strada. Che fosse amore, disperazione, follia, bisogno di ricominciare a partire da quella sequenza di espressioni.
Da lì alla contemporanea evoluzione firmata da Pininfirina e battezzata Icona, giusto per rendere omaggio ai tanti punti di riferimento, il viaggio è denso di racconti. Cambiano le linee, il design, il volume, la tecnica, resta il concetto, lo stesso di un secolo fa. E pure la ditta che ha depositato la macchina in Italia nel 1962 e che ancora la produce, nel 2023. La Dedem classica l’avrete vista più volte in giro oppure in «Al bar dello sport» dove Jerry Calà si nasconde da Lino Banfi. Popolare citazione nostrana, insieme all’episodio di De Crescenzo di «Così parlò Bellavista», sempre a inizio Ottanta e alla copertina di «Nome e cognome» di Ligabue (2005), ma non siamo noi i depositari delle storie più travolgenti nate tra uno sgabello regolabile e una tenda capace di fare da schermo dal mondo.
I ricordi migliori vanno pescati altrove, meglio bussare a Montparnasse, dentro «Il favoloso mondo di Amélie», l’unico film in cui la fabbrica del clic è protagonista. Favola di un amore tanto fragile da non poter essere maneggiato dal vivo e quindi lasciato alle foto. Lui raccoglie gli scarti della vita degli altri, lei ne custodisce le ossessioni, in mezzo la cabina che non si stanca mai di attirare e stuzzicare e mostrare e giudicare. Lo fa in «Paris Texas», in grado di consegnare a un bambino una famiglia dentro quadrati in serie, la coperta di Linus da tenere sotto il cuscino. Lo fa con il pianto disastrato di Stefania Sandrelli in «C’eravamo tanto amati». Lo fa nella fretta convulsa di Harrison Ford ne «Il fuggitivo». Lo fa «Hannibal» che usa la cabina come truce indizio da lasciare alla detective. Lo fa in «Buffalo 66» con il graffiante bisogno di una verità messa in scena. Lo fa in «Elemental», ultimo titolo Pixar dove i sentimenti escono sovraesposti.
La cabina è stata alcova, rifugio, cuccia, macchina del tempo (nella serie tv «Se ci conoscessimo oggi», su Netflix). È il punto di incontro per passioni dal tramonto all’alba che non avranno un seguito nella vita reale, però rimarranno grazie alle facce buffe, estasiate, sedotte, tristi, spaventate per il futuro, accese dal desiderio, stravolte dalla paura. Sta tutto impresso in quattro foto scattate un secondo dopo l’altro. Oggi si può scartare e selezionare eppure il principio resta identico: giocare, stupire, essere diversi da sé e scoprirsi altri da come ci eravamo disegnati.
Per questo la fototessera fai da te ha definito i successi di dischi che ancora girano: dalle illustrazioni di «The White» album dei Beatles a «15 Big Ones» dei Beach Boys alla raffinatissima «Assembly» di Joe Strummer. La cabina vibra dentro «Miami» degli U2 e si definisce in «Carnival» di Neil Young, «From a photobooth near by with a girl so lovely I loved so dearly at the time»: a quel tempo, quello della foto che lascia un retrogusto fresco pure quando è finita male. L’eco arriva dagli Arctic Monkeys di «Humbug»: «You are not allowed to tell the truth And the photo booth’s a liar», quei profili mentono: la gioia di certi ritratti a due è istantanea quanto la tecnica, dura il tempo della stampa. Idea abbracciata dai surrealisti che sfruttavano la scena e replicata da Warhol a sfondo pop e riutilizzata da Yves Tanguy a sfondo struggente e poi da Cindy Sherman a sfondo impegnato. Muta, appunto, solo lo sfondo, noi no. —