Robinson, 5 novembre 2023
Parla Paolo Repetti
Dai disagi psichici giovanili, all’ipocondria patologica ai successi professionali, l’editore della “gioventù cannibale” si racconta. L’amore per la madre, i primi passi con Theoria, l’amicizia con Severino Cesari e la collana Einaudi Stile liberodiAntonio GnoliUna voce mi arriva moltiplicata: «Ma come, straparli con Paolo Repetti?». Avverto un senso di indignazione. «Vai, vai pure, sentirai quante cazzate verranno fuori». Rifletto. Non è che Roma, ma anche Torino, perfino Milano, l’hanpreso di mira? Dopotutto a 67 anni compiuti Paolo Repetti qualcosa nella vita ha combinato. Con il compianto Severino Cesari s’è inventato Stile libero, collana che da sola copre quasi il trenta per cento dell’Einaudi. E poi, ci sono quei due romanzetti (Lamento del giovane ipocondriaco eEsercizi di sepoltura di una madre) con cui il nostro si mette a nudo. Magari c’è molto narcisismo. Però vi trovo anche sofferenza, fragilità, quell’innocenza che nasce dalle cose impure. Cerco un motivo per incontrarlo. E in fondo i motivi, penso, me li deve dare lui.Paolo godi di una fama pessima, ne sei consapevole?«Lo sento in giro».Dicono che passeresti sul cadavere di tua madre pur di raggiungere un tuo scopo.«Mia madre, poveretta, è morta da tempo. Benedetta sia la sua immagine. No, sarei passato piuttosto sul mio di cadavere pur di farla felice».Era ebrea?«Ebrea marrana, convertita al cattolicesimo per amore di chi sarebbe diventato il marito. Mi ha avuto all’età di quarant’anni».Cosa facevano i tuoi?«La mamma aveva una piccola merceria al ghetto di Roma. Vendeva soprattutto asole. Diceva: finché ci sarà l’inverno la gente aggiusterà i cappotti e comprerà asole. Poi un giorno arrivarono le zip, il negozietto fallì.Lì ho capito che l’ottimismo non sempre paga. Miopadre era un dirigente d’azienda. Mi terrorizzava la voce, lo sguardo, il modo di parlare del mondo. Mai un dubbio. Così mi legai morbosamente all’affetto materno: una madre sempre più ansiosa e depressa che non voleva staccarsi da me né io da lei».Eri un bambino complicato.«A sei anni manifestai i primi segni di ipocondria. Fui visitato da medici ordinari che rassicurarono i miei: il bambino sta benissimo, deve solo crescere. A nessuno venne in mente di tirare fuori il mio disagio psichico».E tu?«Sempre peggio, sempre più esposto alle fantasiose malattie. Mi dicevo, per fortuna morirò presto. Poi a 16 anni vendetti i miei 50 long play per comprarmi le opere di Lévi-Strauss, mi sembrava un gesto di rottura verso una famiglia che leggeva pochissimo. Alleviai per un po’ le mie nevrosi ma non le risolsi. Continuavo a nutrirmi di un sottofondo angoscioso generato dal terrore delle malattie. A vent’anni ebbi i primi attacchi di panico. Mi ero iscritto all’università senza convinzione. Ero già uno studente fuori corso quando decisi di cercarmi uno psicoanalista. Lo trovai in Michele Risso».Ricordi l’anno?«Mi pare fosse il 1978 o il 79. Fu un’entrata non dico trionfale nella psicoanalisi ma abbastanza decisa. Nelle sedute tormentavo il mio inconscio. A casa compulsavo i testi di Freud e Jung. Risso proveniva da una formazione fenomenologica e antropologica, tra Karl Jaspers e Ernesto de Martino. In quegli anni redassi la voce “Psicoanalisi” per la Garzanti. Poi insieme alla laurea arrivò l’incontro fondamentale con Vincenzo Cerami.Era lontanissimo dagli interessi psicoanalitici, ma aveva un mondo interiore talmente ricco di esperienze autentiche che sarebbe stato difficile non restarne affascinato».Era il letterato nato nelle borgate.«Veniva da Ciampino, un paesino vicino Roma. A scuola il suo professore di lettere fu Pier Paolo Pasolini. Miraccontò come, grazie allo scrittore, fosse riuscito a vincere la sua introversione. Fu Cerami a introdurmi nel mondo letterario romano. A gente come Carmelo Samonà, Giuseppe Bertolucci, Alberto Moravia. Fu sempre lui a darmi l’occasione di salire a bordo di Theoria, la casa editrice romana che per almeno un decennio agitò le acque dell’editoria».Salisti a bordo con quale ruolo?«Entrai occupandomi delle bolle di accompagnamento.Feci tutto il percorso professionale, dal 1986 al 1994 quando uscii da direttore editoriale».Theoria fu un laboratorio per la cultura di quegli anni.«Venivamo da un periodo fortemente ideologizzato. Quasi tutti pubblicavano le stesse cose. Testi e libri di forte impronta politica. Se ci fossimo messi su quella scia saremmo durati pochissimo. Beniamino Vignola, allievo di Samonà, aveva fondato la casa editrice con la ferma intenzione di dare una scossa a quel mondo ormai prevedibile».Avevate un modello di riferimento?«Beh, la sola casa editrice che, in quel periodo, uscì rafforzata era Adelphi. Ci sembrava che una casa editrice, che non si vergognava di pubblicare autori dichiaratamente di destra, molto amata dai lettori di sinistra, meritasse tutta la nostra attenzione».Chi prese parte a questa avventura?«Vignola chiamò come consulente Giulio Giorello che si occupava di testi scientifici. Ricordo che pubblicammo libri di Copernico e Galilei suscitando l’interesse di Alfredo Giuliani e Giorgio Manganelli. Un’altra figura fondamentale, soprattutto per la letteratura inglese, fu Malcolm Skey».Ricordo un omone pigro e simpatico che sapeva tutto del romanzo gotico.«Pigro in una maniera inguaribile. Dovevamo attendere le sue prefazioni quando già eravamo in stampa! Malcolm per un periodo era stato consulente per Einaudi. Portò tutta la sua esperienza facendoci pubblicare scrittori come Poe, Beckford, Shelley, Lovecraft, Byron e la sua amatissima Jane Austen che considerava la vera alternativa letteraria a Virginia Woolf».C’era già Severino Cesari tra i collaboratori?«Per Theoria Severino aveva pubblicato il libro intervista con Giulio Einaudi. Per me è stato l’amico e il fratello maggiore. Fece conoscere Emmanuel Carrère quando in Italia nessuno sapeva chi fosse. Contribuì in maniera determinante alla scoperta dei giovani scrittori italiani: Lodoli, Onofri, Petrignani, Veronesi e altri».Perché tu e Cesari decideste di uscire da Theoria?«La casa editrice era carica di debiti e con poche prospettive. Severino conosceva bene Einaudi. Gli dissi perché non gli proponiamo una collana di narrativa a 360 gradi che comprenda l’alto e il basso della cultura, il romanzo sofisticato e pop?».Einaudi accettò la vostra proposta?«Ci volle pensare, ma sapevamo che era la sola persona in quel momento in grado di accogliere il progetto».Molti in casa editrice si ribellarono all’idea di un vostro ingresso.«Eravamo considerati degli intrusi. Come poteva, questo era il ragionamento, la casa editrice di Bobbio, di Mila, di Leone Ginzburg, tanto per fare dei nomi, convivere con generi che comprendevano il noir, i fumetti, il romanzetto usa e getta?».La casa editrice non navigava però in buone acque.«Era stata commissariata ed Einaudi cui il progetto piacque non aveva da solo la forza per imporlo. Una mano ce la diede Gian Arturo Ferrari, allora a capo della Mondadori. Alla fine riuscimmo a vincere le resistenze, anche se restarono le perplessità. Entrammo con un programma ben delineato».Restavate un corpo estraneo, voi a Roma la casaeditrice a Torino.«Qualcuno continuava a viverci così, ma Giulio Einaudi durante una delle prime riunioni disse: “Non voglio tenervi come dei separati in casa. Perciò fin da subito i libri Stile libero usciranno nei tascabili”».Chi fu a dare il titolo della collana?«Arrivammo già con il nome. Era il solo titolo che avrebbe potuto tenere insieme cose molto diverse».Il primo successo?«Il libro di Roberto Benigni E l’alluce fu.Chiedemmo l’introduzione a Cesare Garboli che si divertì molto nel gioco di alto e basso. Vendemmo 400 mila copie».Poi ci fu l’antologia dei “cannibali”.«Mettemmo assieme i racconti di alcuni scrittori molto giovani – tra cui Ammaniti, Nove, Luttazzi, Pinketts – aperti al cinema e alla musica. Una generazione insomma che non faceva letteratura per la letteratura.La decisione suscitò molto malumore tra alcuni einaudiani. Ancora una volta fu Giulio Einaudi a difendere la nostra scelta».Come vi venne in mente il nome “cannibali”?«Fu Daniele Brolli che curò l’antologia a darci il titoloGioventù cannibale. All’inizio pensavamo di chiamarla “Spaghetti splatter”. “Cannibale” evocava una tribùselvaggia e irrituale, perfettamente i linea con i nostri intenti culturali».Mi pare fosse stato Andrea Pazienza a parlare per primo di “generazione cannibale”.«Ce lo disse Vincenzo Mollica che oltretutto ci aiutò molto nella scelta di alcuni titoli. Quanto all’antologia, visto il clamore mediatico, vendette meno di quello che ci aspettavamo. Si fermò a 50 mila copie. Abbiamo fatto altri colpi notevoli: nella narrativa americana, nel crime italiano, con le videocassette. A tutt’oggi contribuiamo per più di un quarto al fatturato complessivo dell’Einaudi».È cambiato qualcosa con la scomparsa di Severino Cesari?«Severino era l’anima buona di Stile libero e io l’anima nera. Ci siamo volutamente dati questa rappresentazione all’esterno».Corrispondeva ai vostri caratteri.«In parte. Lui è morto sei anni fa. So che se fosse scomparso prima non ce l’avrei fatta a reggere la pressione e l’urto che arrivavano dall’esterno. Quando è morto mi sono sentito perso. Tutto quello che avevamo fatto corrispondeva allo Yin e allo Yang. Ci completavamo, combaciavamo perfettamente con lenostre opposte nature. Poi ho scoperto che tutto quello di cui avevo sofferto in passato – le insicurezze, la paura, le nevrosi – non era più la parte dominante. E allora avrei potuto continuare anche da solo. Con l’aiuto ovviamente delle persone che lavorano con me».Hai chiuso con l’analisi?«Oltre a Risso ho avuto altri due analisti. Poi ho smesso. Quando ho la sensazione di stare per cadere in qualche buco nero ricorro agli psicofarmaci».Perché la gente non ti ama?«So di non godere di una buona fama. Ma quelle cinque o sei persone che considero davvero amiche hanno un’idea diversa di me. A volte mi sono comportato senza eccessivi scrupoli per avere un autore o il titolo di un libro. Ma questo fa parte del mercato editoriale e della lotta per la sopravvivenza. Mia madre, che aveva vissuto le ripercussioni del nazismo, mi diceva non dire mai a nessuno che sei ebreo. Puoi immaginare il mio rapporto con la verità».Ossia?«Piuttosto distorto. Una dimensione che ha fatto di me un ragazzino permeabile fino ad essere bullizzato dai suoi coetanei. Non riuscivo a difendermi. Non avevo unghie».Come hai fatto a farle crescere?«Non so dirtelo. So che la mia vita sentimentale e lavorativa è stata inquieta. Kafka dice che non occorre trovare la verità, basta una via di uscita. Io mi sono inventato il personaggio Repetti».Somigli a una figura di Isaac Singer.«Se è al mio ebraismo che alludi, mi sento fuori dai riti religiosi. Sono un darwinista convinto. Però so al tempo stesso di conservare una certa disposizione ebraica davanti alle piccole cose, in quella quotidianità profana che si anima di racconti e di attese».Sei un ebreo senza una vera identità.«Ho imparato a difendermi dal mondo costruendo una maschera sociale. E la maschera è stato il mio ebraismo».Si chiama impostura.«Perché no? Dopotutto, è il tema delpuer che prima o poi verrà scoperto nelle sue marachelle e vive il proprio dramma in attesa di subirne le conseguenze».Ora cosa ti attendi?«Se penso al mio lavoro so di averlo svolto al meglio anche se non mi attendo riconoscimenti speciali. Se penso al dopo, lo immagino come una fase tutta da esplorare. Ma non sono ancora preparato. Temo la maschera che indosso, temo i demoni che potrebbero tornare. Vorrei conservare le mie piccole libertà senza timore dell’età, degli acciacchi, del giudizio degli altri.Vorrei continuare ad essere me stesso senza la fatica di dovermi ogni volta rimettere in discussione».