Domenicale, 5 novembre 2023
I gioielli che si vedono nei quadri degli Uffizi
1di2Due anni fa da Sotheby’s un anonimo appassionato ha sborsato quasi 4 milioni di dollari per aggiudicarsi un favoloso zaffiro del Kashmir da oltre 55 carati appartenuto a una nobildonna britannica. Se fossimo stati nel Quattrocento, tale gemma sarebbe stata probabilmente considerata una sorta di stairway to heaven, stando almeno alla lettura di Sicilio, araldo alla corte aragonese di re Alfonso: nel suo trattato sul simbolismo dei colori sosteneva che lo zaffiro rendesse l’occhio più acuto, perché evocava la città celeste di Gerusalemme. Oggi un gioiello si apprezza in quanto emblema immediato di status, al limite se ne apprezza la qualità delle gemme, mentre solo i più esperti giungono a riconoscere la mano di un certo designer. Ma certo, le valenze magiche, mistiche, simboliche, che per secoli le pietre preziose hanno posseduto sono state condannate all’oblio dal primato di sempre più lunghe serie di zeri. A ricordare come gemme e gioielli avessero un tempo una profonda dignità intellettuale è il bel volume scritto dalla storica dell’arte Silvia Malaguzzi, che racconta i magnifici gioielli indossati nelle opere del polo degli Uffizi. L’indagine copre i secoli compresi fra il Tre e l’inizio dell’Ottocento, tracciando il percorso che ha visto gemme e gioielli trasformarsi da amuleti, codici di comunicazione e simboli del potere, a mirabilia, frutti della natura da valutare con occhio scientifico. Il lungo legame fra oreficeria e arte è stato peraltro favorito dal peculiare contesto fiorentino, dove per secoli pittori, scultori e architetti facevano tirocini nei laboratori orafi (come Antonio e Piero del Pollaiolo) e capitava che spesso fossero parenti (Sandro Botticelli era fratello dell’orafo Antonio). Riguarda proprio Botticelli una delle più interessanti delle numerose interpretazioni con cui Malaguzzi rende particolarmente avvincente il suo lavoro: proprio i gioielli indossati da due Grazie della Primavera, uno in stile fiorentino, l’altro romano, evocherebbero la rinnovata pace fra le due città dopo anni di tensioni causate dal coinvolgimento di papa Sisto IV nella Congiura dei Pazzi, dove perse la vita Giuliano de’ Medici. Appare anche il diamante, simbolo araldico della dinastia, che si ritrova a ben vedere in tutti i ritratti dei suoi membri. Altra acuta lettura riguarda il misterioso pendente a forma di scorpione sulla fronte di Elisabetta Gonzaga, ritratta da Raffaello: escluso che rimandi al suo segno zodiacale (era nata sotto l’Acquario), attraverso serrate argomentazioni l’autrice suggerisce che possa simboleggiare le virtù dialettiche della duchessa e tradire insieme la preoccupazione per gli agguati dei nemici. Ipotesi che prenderebbe corpo se la datazione dell’opera risalisse al 1503-4, quando i duchi erano rientrati in possesso di Urbino dopo l’esilio inflitto da Cesare Borgia.
Lo sfarzoso gioiello sul capo della dama ritratta da Alessandro Araldi confermerebbe la sua identificazione con Beatrice d’Este, poiché corrisponderebbe alla descrizione dei doni nuziali di Ludovico il Moro, con la grande perla evocante la purezza della maternità. Alle perle, in particolare, è dedicato un intero capitolo: legate all’iconografia mariana, sono simbolo di amore, castità e fertilità, come quelle indossate da Bianca Cappello nel ritratto di Alessandro Allori, scelte per darle un aspetto da sposa quando Francesco de Medici non poteva ancora portarla all’altare, poiché erano già entrambi coniugati (lo avrebbero fatto, finalmente liberi, nel 1579, un anno dopo il ritratto). Perle che evocano anche la città di provenienza di Bianca, Venezia, all’epoca cruciale hub di smistamento dei preziosi. Più maliziosa la perla indossata all’orecchio dalla Venere di Urbino di un altro veneziano, Tiziano, che riprende una moda introdotta dalle dame della Serenissima secondo “il costume di more”, come scrive Marin Sanuto.
Ma è quando dietro un grandioso splendore si nasconde un umanissimo desiderio di vita e protezione che i gioielli diventano struggenti. Accade in tutti i celebri ritratti dei Medici firmati da Agnolo Bronzino, come quello della bella Bia, ritratta a cinque anni, con orecchini di diamanti simbolo della sua casata, e il medaglione con il ritratto del padre Cosimo I, segno di legittimazione per la bimba nata fuori dal vincolo coniugale. Sulla cinturina appare una sfera d’oro traforata: è il pomander (dal francese pomme d’ambre), contenitore di profumata pasta di ambra grigia che si credeva proteggesse da malattie e malefici. Non avrebbe funzionato, anzi, il ritratto sarebbe postumo perché Bia morì di febbre, ma apparirà di nuovo nel gioviale ritratto di Giovanni, che indossa anche il rametto di corallo fin dall’antica Roma amuleto per eccellenza dell’infanzia. Giovanni è accanto alla madre Eleonora di Toledo in uno dei quadri più amati degli Uffizi dove, al di là della grandiosità di gioielli e abiti, i timori materni vibrano nella nappa di perline che si apre sulla gonna dell’amata moglie di Cosimo, versione di lusso del ciuffo dei peli di tasso, altro talismano che si credeva proteggesse i bambini dalle streghe