Domenicale, 5 novembre 2023
Come srotolare i papiri di Pompei
Era l’estate di 270 anni fa – il 5 luglio 1753, per la precisione – quando mise piede nel regno di Napoli un quarantenne alto, moro e ossuto. Le mascelle marcate, l’aria riflessiva e un poco trasognata. Non per distrazione, ma quasi all’opposto per un eccesso di riflessione. Era ligure e apparteneva alla famiglia religiosa degli scolopi, ma veniva da Roma, dove lavorava come «Sopraintendente delle Pitture della Biblioteca Vaticana», ossia restauratore di libri. Era stato concesso, per soli tre mesi, dalla benevolenza di Benedetto XIV, col compito di risolvere il più difficile e impellente dei problemi: srotolare i papiri di Ercolano.
Impellenza recentissima quella di Carlo di Borbone e della regina Maria Amalia, dal momento che i rotoli papiracei avevano iniziato a riemergere soltanto da qualche mese: al 19 ottobre 1752 data la prima attestazione della scoperta. Quelli incontrati prima furono presumibilmente buttati via, perché non fu subito chiaro a tutti che cosa fossero quella specie di «corna di capra» – e la definizione è di Winckelmann, non dell’ultimo dei tombaroli – tanto scuri e ripugnanti, quanto difficili da classificare. Sulle prime li si scambiò per mucidume, carbone, «tela abbruggiata», antiche reti da pesca o da caccia. Solo col tempo divenne chiaro che si trattava di «volumi di papiro, trasformati in una sorta di carbone, così fragili che appena si toccano diventano cenere». Il calore e la lava dell’eruzione del 79 d.C. li avevano sigillati rendendoli simili a mozziconi di «legno incarbonito», che come tale venivano calpestati o rimossi alla meno peggio dagli addetti agli scavi. Fu solo quando il loro numero divenne improvvisamente più consistente e concentrato in alcune casse nei pressi del peristilio della villa sotterranea, che a qualcuno venne il sospetto che si trattasse di papiri. Col tempo ne sarebbero riemersi centinaia e centinaia, e il problema divenne quello di aprirli. Compressi dal fango e dalla lava, e carbonizzati all’esterno, erano divenuti una sorta di amalgama cristallizzato, che faceva resistenza a qualsiasi tentativo di manomissione, per poi cedere improvvisamente, e sbriciolarsi, quando si applicasse una forza eccessiva. Il re non voleva sentir ragioni e con la baldanza di un Borbone e lo sfrenato gusto delle antichità di un Farnese – sua madre Vittoria era stata l’ultima della stirpe – promosse in ogni modo le operazioni di apertura, sia personalmente sia suscitando la cortigianeria, l’inventiva e la scienza dei suoi sudditi. Carlo stesso procedette a incisioni e forzature con vari corpi variamente contundenti, mentre Camillo Paderni tentò con applicazioni di acqua ragia, olio di spiconardo, colla di pesce, acqua di rosa, somministrati mediante suffumigi, immersione o impacchi, ma senza risultato (se non quello di distruggerli). Fu convocato Raimondo di Sangro, il principe alchimista, che propose il mercurio: bagni, immersioni, esalazioni, ma col medesimo risultato. Venne la volta del canonico Mazzocchi che con la sua ipotesi dell’esposizione ai raggi solari sotto una campana di vetro contribuì a mandare «al diavolo i migliori di questi monumenti». L’unica soluzione restava quella della scorzatura, una brutale incisione verticale che tagliava in due il rotolo, aprendolo come una mela. Ma anche i re hanno attimi di resipiscenza e Carlo fece scrivere al papa per sapere se per caso la Biblioteca Vaticana non disponesse di qualche esperto in fatto di papiri. Fu in quell’occasione che venne fatto il nome di Antonio Piaggio, «uno de’ più stimati soggetti che abbiamo in Roma, e forse in tutta l’Europa, possiede moltissimi segreti toccanti varie arti, qualcheduno de’ quali potrebbe giovare all’intento, quando la materia consaputa de’ volumi ne fosse ancora capace». Con segreti si indicavano allora le ricette e i ritrovati tecnologici, ma anche magico-alchemici, per far fronte alle diverse esigenze materiali (non era ancora netta la distinzione tra saperi tecnico-professionali ed esoterici), e il padre Piaggio poteva vantarne molti: fabbricazione di inchiostri, anche dorati, realizzazione di decorazioni effimere, pittura e ritrattistica, esecuzione di bizzarrie artistiche come i tocchi di penna o le miniature, costruzione di modellini in scala e tintura di stoffe, progetti di macchinari industriali e realizzazione di pietre preziose dal vetro. Concia delle pelli, mappature di rilievi antichi e moderni, tessitura di tappeti e mille altre produzioni «meravigliosissime cose, tutte di nuova invenzione» (era anche perito calligrafico presso il Tribunale di Roma).
Sceso a Roma con quella sua flemma sotto cui covava la sua fervida inventiva e nascondeva la sua non troppo onorevole propensione al guadagno, Antonio Piaggio si mise al lavoro e nel giro di pochissimi mesi fu in grado di presentare il suo prodigio. Un macchinario in grado di srotolare, senza rompere, i fragilissimi papiri ercolanensi. Talmente innovativa da non attirare che assai sfocate analogie: dall’«arnese usato dai parrucchieri per intrecciare i capelli» a quello sul quale «i legatori cuciono i libri». Il rotolo era poggiato sulla parte bassa della macchina. Il lembo terminale veniva ammorbidito, staccato e progressivamente rafforzato sul lato esterno, non scritto, con frammenti di membrana animale. Lì si applicavano dei fili di seta che venivano poi fatti salire in alto e messi in tensione con tiranti e pesi, così da facilitare lo srotolamento del resto del volume, in maniera progressiva e sempre inumidendo la piccola sezione lavorata quotidianamente. Si avanzava di pochi centimetri al giorno e in quasi due secoli sono stati aperti e resi leggibili circa 800 papiri: un’enormità, se si riflette alle difficoltà iniziali, un’inezia secondo i più impazienti, come il ministro Bernardo Tanucci, che era per giunta anche toscano. A lui si deve la definizione di Piaggio come «il più lento servitore della monarchia» borbonica.