Domenicale, 5 novembre 2023
Elogio del traduttore
Le differenze linguistiche sono state sentite come una maledizione sin dai tempi più remoti, e la maledizione è attiva ancora oggi. A livello più o meno inconscio, chi parla un’altra lingua è per molti lo straniero per eccellenza; è l’estraneo, il diverso, il nemico potenziale. L’attrito linguistico degenera facilmente in attrito razziale e politico. Per questo Primo Levi ha osservato che chi esercita il mestiere di traduttore o di interprete dovrebbe essere onorato in quanto si adopera a limitare i danni della maledizione di Babele.
Non solo. Gli uomini stentano a capire che la pluralità è ricchezza, che in campo linguistico, come in quello biologico, le diversità – a saperle mettere a confronto – producono un consistente ampliamento della conoscenza che abbiamo di noi stessi, degli altri, del mondo in generale. Forse è anche per questo che la lingua tedesca ha coniato per designare un traduttore una parola che conferisce implicitamente una medaglia al valore.
Il traduttore è un Übersetzer, un qualcuno che “pone sopra”, che aggiunge. Un aumentatore, proprio come l’autore, colui che per i romani pratica l’arte benefica dell’augere, dell’accrescere. Non a caso le qualità che si richiedono a un traduttore hanno del sovrumano, come ci hanno ricordato Fruttero e Lucentini: «A un traduttore si chiede di essere insieme, e a freddo, Napoleone e il suo più infimo furiere, di avere lo sguardo d’aquila dell’uno e la maniacale pignoleria dell’altro. Gli si chiede di dominare non una lingua, ma tutto quello che sta dietro una lingua, vale a dire un’intera cultura, un intero mondo, un intero modo di vedere il mondo. E di saper annettere imperialisticamente questo mondo a un altro tutto diverso, trasferendo ogni sfumatura, registro, accenno, allusione, tonalità entro i nuovi confini. Gli si chiede infine di condurre a termine questa improba e tuttavia appassionata operazione senza farsi notare, senza mai salire sul podio o a cavallo. Gli si chiede di considerare suo massimo trionfo il fatto che il lettore neppure si accorga di lui».
L’artista, il co-autore, l’aumentatore a cui chiediamo sadicamente di rassegnarsi a vivere all’ombra dell’autore è un portatore di luce. È il custode della parola che vive con particolare intensità la responsabilità della parola. Di sicuro, finisce di saperla più lunga dell’autore. L’autore può permettersi di essere qualche volta distratto, o semplicemente non completamente consapevole di quello che sta facendo. Il traduttore non si può permettere questo lusso. Deve restare sul pezzo, come si dice. Affronta ogni parola, la pesa, la scruta, la considera come se dalle scelte che sta facendo dipendesse il destino del mondo. Ed è effettivamente così: tutti dovremmo usare le parole come se fossimo dei traduttori al lavoro: rigorosi, esigenti, incontentabili, mai soddisfatti delle soluzioni che hanno trovato.
In un’epoca di parole irresponsabili, gettate al vento per ignoranza, sciatteria o volgare calcolo demagogico, il traduttore è qualcuno che vivendo e praticando la responsabilità della parola difende anche le dighe di una civiltà in crisi. Una crisi che è in primo luogo culturale, ed è questo che la rende particolarmente grave e pericolosa. La peste che avvelena il linguaggio e che già trent’anni fa Italo Calvino denunciava nelle sue Lezioni americane, non è qualcosa che riguarda solo i letterati: è una devastante malattia sociale.
Noi siamo gli ultimi anelli di una lunga catena genetica, ma siamo anche figli dei libri che hanno nutrito e plasmato nei secoli i nostri antenati e la nostra stessa immaginazione. Siamo anche figli delle traduzioni, di quelle eroiche, di quelle discutibili, di quelle sbagliate. Tutte concorrono a fare la storia della cultura che sentiamo come nostra.
Non sapremmo rinunciare nemmeno ai titoli inesatti di alcuni grandi classici, che sono entrati a far parte della memoria e del gusto collettivi. È ben vero che Der Zauberberg va tradotto La montagna magica, come ha fatto nel 2010 una traduttrice eccelsa quale Renata Colorni (ho avuto la fortuna di seguire personalmente, lavorando nella stessa casa editrice, la Boringhieri, le ultime tappe del suo magistrale lavoro sulle opere complete di Sigmund Freud e anche i suoi epici scontri con Cesare Musatti, il fondatore della psicoanalisi italiana che dirigeva l’edizione, ma non conosceva bene il tedesco quanto lei).
Ma come rinunciare a La montagna incantata, che ci è diventata così abituale da sentirla come qualcosa che appartiene a un patrimonio familiare? È ben vero che il più famoso e perturbante dei racconti di Kafka, Die Verwandlung, andrebbe tradotto con La trasformazione, una voce più tecnica, freddamente oggettiva, come ci si può aspettare da un distinto funzionario che lavora al ramo infortuni delle Assicurazioni Generali, sede di Praga. Ma come rinunciare alla metamorfosi, che si carica di tutte le possibili reminiscenze ovidiane e fa ascendere la triste vicenda alle sfere atemporali del mito?