Domenicale, 5 novembre 2023
Sull’imballaggio (packaging)
Prendete un’arancia, diceva Bruno Munari, «questo oggetto è costituito da una serie di contenitori modulati a forma di spicchio, disposti circolarmente attorno a un asse centrale verticale (…) L’insieme di questi spicchi è raccolto in un imballaggio ben caratterizzato sia come materia che come colore: abbastanza duro alla superficie esterna e rivestito con una imbottitura interna, di protezione tra l’esterno e l’insieme dei contenitori».
L’uomo e la donna non hanno fatto altro che cercare di imitare quel processo perfetto e sintetico garantito dalla natura ai suoi frutti. Così nel mondo degli artefatti, l’esigenza di dare un involucro alle cose nasce con le cose stesse: proteggerle, scambiarle, trasportarle, a volte anche nasconderle, conservarle. A cui poi, col tempo, si è aggiunta un’altra funzione: raccontarle. Parliamo di saperi, al plurale, perché il packaging non riguarda soltanto il processo produttivo, la tecnologia sempre più sofisticata con cui è concepito, ma anche il design, ergonomico, funzionale, efficiente, accattivante; e non riguarda soltanto la comunicazione: identificare, informare, sintetizzare; ma anche la pubblicità: rendere memorizzabile, distinguibile, desiderabile. Perché il packaging è un messaggio, quasi sempre, il primo che riceviamo dalle cose. Ed è un esercizio di equilibrismo tra creatività, funzionalità e sostenibilità, dove nessun aspetto dovrebbe prevalere sull’altro, a discapito dell’altro: dove il cosiddetto effetto wow non dovrebbe dimenticare l’impatto ambientale; l’adattabilità a diversi canali di vendita non dovrebbe incidere sulla sostenibilità economica, e quindi su di noi; dove la funzionalità non dovrebbe generare trascuratezza nella cura di ogni singolo dettaglio. A pensarci bene: non ci sono così tanti progetti che rispondano a questi requisiti, che considerino cioè il packaging come un elemento stesso del prodotto in esso contenuto, che ne giustifichino la nascita, ne guidino il senso, ne sfruttino le possibilità e infine, oggi più che mai, ne governino lo smaltimento.
In questa mostra ne abbiamo isolati una ventina – dalla bottiglietta del Campari alle sorpresine del Mulino Bianco, dalla fondina per il panettone alla tanica per la benzina, dalla Coppa del Nonno alla Razione K dei soldati – scelti con questo doppio criterio: da una parte, raccontare il packaging nella sua accezione più ampia possibile (fino ad arrivare a immaginare che persino la rete ovoidale arancione che custodisce i cantieri italiani, sia un involucro essa stessa, e insieme un arredo urbano effimero e temporaneo); dall’altra, raccontare un pezzo di storia del nostro Paese, degli italiani e delle italiane, attraverso gli involucri. La mostra ha l’obiettivo di raccontare l’impresa italiana attraverso i suoi oggetti e le loro storie, come sono stati concepiti, al tempo in cui sono nati, spesso insieme alle novità tecnologiche e allo studio dei nuovi materiali intervenuti nei processi, e come hanno attraversato il secolo scorso, al fine di raccontare un concetto più ampio di impresa che in un secolo di storia italiana ha visto incrociarsi saperi legati alla logistica, alla tecnica, alla comunicazione, alla pubblicità, all’arte, al design. Ma anche di raccontare un pezzo della storia del nostro Paese attraverso le forme, le intuizioni, le trovate, gli slogan, i loghi stessi e il passaggio di testimone da un’epoca all’altra. La maggior parte dei progetti che compaiono in mostra sono in salute ancora oggi, dopo decenni di vita e con minime modifiche rispetto al passato, quindi non sempre è stato semplice o scontato farsi guidare da un percorso cronologico, ma è pur vero che senza contestualizzare il periodo storico in cui questi saperi sono nati si perderebbe molto del loro senso. Al tempo stesso, viste adesso, una dopo l’altra, queste forme e i messaggi che veicolano più o meno esplicitamente, ci dicono finalmente tantissimo anche sull’evoluzione della nostra stessa storia di consumatori e consumatrici, e, perché no, eventualmente anche sull’involuzione: perché questo è, infine, l’ultimo dei saperi coinvolti nel packaging, forse il primo che dovremmo citare, cioè il nostro, quello con cui noi sappiamo vedere quello che sta intorno ai prodotti che consumiamo, ciò che sta oltre e prima delle cose.
Lungo un allestimento concepito in modo lineare, realizzato con scaffali industriali utili a richiamare il contesto d’impresa, si dipanano tra oggetti, racconti e materiali pubblicitari, con l’intenzione di far scoprire non solo quello che c’è dentro, spesso già molto noto, ma quello che c’è dietro, mostrando come uovo e gallina, contenitore e contenuto, immagine e prodotto si sono fatti insieme.