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 2023  novembre 08 Mercoledì calendario

Riscoprire la memoria di un’identità

Il 24 febbraio del 2022 ha rivelato molte cose che ci riguardano. Cioè, riguardano noi tutti. Alcune, forse le più importanti, sono state messe sotto una lente di ingrandimento da Vittorio Emanuele Parsi in Madre Patria. Un’idea per una nazione di orfani, pubblicato da Bompiani. Se i russi invasori dell’Ucraina hanno potuto raggiungere «vertici di abominio» come quelli toccati a Bucha, Mariupol, Irpin, «è perché le loro teste sono state riempite per anni dalla paccottiglia avvelenata di un nazionalismo stolido incapace di tollerare che una delle ex province dell’impero possa opporsi, con successo, alla volontà di assoggettarla nuovamente». Una descrizione che forse non si addice a tutti gli inconsapevoli soldati mandati a morire nel Donbass. Ma che potrebbe dare una spiegazione di alcune loro prove di crudeltà davvero fuori dal comune.
Si tratta di qualcosa che noi italiani conosciamo bene, un processo analogo a quello che per un ventennio i nostri connazionali subirono durante il regime fascista. Anche a noi «toccò in sorte l’amara esperienza del sequestro e della distorsione dell’idea di Madre Patria». Al punto che molti italiani dissero di sentirsi «stranieri in Patria», non più affratellati ai loro compatrioti. Altri dovettero «espatriare», andarsene all’estero «per non subire violenze o venire giustiziati per il solo fatto di non essere in accordo con chi si era ascritto il ruolo di duce degli italiani».
La terribile guerra imposta dalla Russia al popolo ucraino ha mostrato al mondo intero «i due volti della Patria». E del patriottismo. Il volto «malevolo e arcigno, aggressivo e violento, che pone la propria Patria al di sopra di qualunque criterio di giustizia e umanità» (del tutto «analogo a quello della Germania nazista e dell’Italia fascista, incarnato dalla Russia di Vladimir Putin»). E quello che «evoca echi risorgimentali e resistenziali, rappresentato plasticamente da tutto il popolo dell’Ucraina guidato da Volodymyr Zelensky». Ma siamo stati costretti a «constatare» come esista una parte forse maggioritaria di italiani e di italiane i quali non riescono proprio a concepire che, «per la salvezza della propria Patria aggredita da un esercito invasore», ci sia «un popolo disposto a sacrificarsi o lottare fino ad accettare la prospettiva della morte». Il testo di riferimento è qui L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia (Laterza) di Andrea Graziosi. Ma anche La costruzione dell’Ucraina contemporanea. Una storia complessa (il Mulino) di Simona Merlo. Nonché lo straordinario Brigate russe. La guerra occulta del Cremlino contro l’Occidente (Bompiani) di Marta Ottaviani.
Per Vittorio Emanuele Parsi, confessa, è stato «desolante» essere costretto a prendere atto di come «molti tra noi, tra i cittadini di una repubblica nata dalla Resistenza e che annualmente celebra in una giornata la liberazione dall’oppressione dell’invasore», abbiano «abiurato al diritto di difendere la Patria». E lo abbiano fatto nel nome di «un irenismo apolide ed egoista». Uno degli «effetti collaterali» della guerra in Ucraina per noi italiani, secondo Parsi, è stato proprio il «rafforzamento della sensazione del carattere talvolta posticcio di molte ricostruzioni dell’epopea della Resistenza, l’aspetto rituale e agiografico in cui la cosa precipua consiste nell’alimentare la legittimità della lotta di una parte contro l’altra per meri fini di spicciola competizione partitica contemporanea». Ed è «convinzione» dell’autore «che anche la Resistenza abbia subìto identico destino della Patria». Quello «di essere stata troppe volte piegata a una ricostruzione opportunistica, volta a legittimare una parte contro le altre nell’agone politico».
La Resistenza «va bene quando è invocata per dotarsi di uno strumento contundente nei confronti del pericolo del “ritorno del fascismo” o, più prosaicamente per contestare un governo delle destre». Ma nel confronto con la resistenza di un altro popolo viene colpevolmente considerata «un riferimento ingombrante o trascurabile», mortificando così «il suo senso più profondo». Il senso «di un momento nel quale l’universalità e l’immortalità dei principi e dei valori sui quali si fonda la contemporanea concezione di democrazia sono stati difesi e ribaditi».
La riflessione di fondo a cui Parsi fa esplicito riferimento è quella contenuta in un celebre libro di Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica (Laterza). Le forze impegnate nella guerra civile sul versante antifascista tra il 1943 e il 1945 «non avevano alcuna comune idea di nazione e di patria», scriveva venticinque anni fa Galli della Loggia, «essendo troppo divaricate, anzi contrapposte, le loro rispettive ideologie». Dal momento che «propriamente parlando», quelle forze non costituivano una parte in lotta contro un’altra (il fascismo e il nazismo), bensì una molteplicità di parti, momentaneamente alleate, contro quella di cui si è detto. Parti pronte, a guerra finita, «a intraprendere fra sé medesime una lotta di eguale asprezza o quasi».
Parsi fa sua l’idea di Galli della Loggia secondo il quale il motivo determinante per cui il mito della Patria nel secondo dopoguerra non ha conquistato i cuori di tutta la popolazione italiana «risiede nel limite strutturale di contenere (senza per questo far sintesi) due progetti radicalmente incompatibili, due visioni del mondo che si ritrovarono contingentemente alleate nel combattere il nazifascismo, ma che erano portatrici di valori e di idealità in ultima istanza inconciliabili». Forse, più di due.
Molti di noi sperarono poi che tutto questo venisse superato tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta con la caduta del Muro di Berlino e l’avvio della costruzione dell’Unione Europea. Donald Sassoon in La cultura degli europei dal 1800 ad oggi (Rizzoli) ha messo in evidenza come l’Unione europea con i suoi 450 milioni di abitanti – pur non essendo uno Stato e non avendo unità linguistica – fosse il «più vasto mercato culturale del mondo». Ma neanche la Ue è riuscita a diventare una Patria. Il perché lo ha ben spiegato Timothy Garton Ash in un libro, Patrie. Una storia personale dell’Europa (Garzanti), dove sostiene che la colpa è del fatto che «Bruxelles non canta». In che senso? Nel senso che la politica è «anche» teatro, dovrebbe «provocare emozioni e affascinare». Certo, noi europei abbiamo la bandiera con stelle gialle su fondo blu e persino un inno (quello «alla gioia», un brano del movimento finale della Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven). Ma né bandiera né inno provocano emozioni. Per il fatto che, ha ulteriormente spiegato Garton Ash a Guido Caldiron («il manifesto»), «mancano a quest’Europa dei grandi attori che calchino la scena della politica e che siano in grado di parlare al cuore oltre che alla mente dei cittadini». E, nella maggior parte dei casi, neanche alla mente. Con il passare del tempo hanno ripreso vita i confini di un tempo. James Crawford in Maledetti confini. Storie di linee tracciate sul mondo (Bollati Boringhieri) ha messo in rilievo come la separazione tra uno Stato e un altro sia frutto di un’elaborazione assai più complessa di quanto comunemente si sia indotti a pensare. Anthony D. Smith in Le origini etniche delle nazioni (il Mulino) ha scritto che un discorso analogo si può fare, appunto, per le origini etniche.
Ed eccoci allora costretti a riprendere in mano il termine «patria». Ma dobbiamo tornare molto indietro nel tempo per superare la traumatica crisi di cui parlò Galli della Loggia. E proiettarci molto in avanti. Si può in un certo senso parlare di un nuovo senso di questa concezione dal momento che – come scrive Fabio Finotti in Italia. L’invenzione della patria (Bompiani) – «la patria non è un dato di fatto che gli uomini si trovano pronto per le mani, una volta per tutte, destinato a restare immutabile nel corso della storia». La realtà della patria, secondo Finotti, «sta proprio nella sua creazione incessante da parte della collettività che in essa si riconosce». Di quella collettività «la patria è in un certo senso madre e figlia al tempo stesso».
Parlò uno dei più grandi storici dell’Ottocento, Ernest Renan – in Che cos’è una nazione (Donzelli) – di un «plebiscito di tutti i giorni». Per poter amare la nostra Patria, per poter scegliere di servirla «negli innumerevoli modi in cui ognuna e ognuno di noi può farlo, nell’unica o nelle tante occasioni che avrà, sotto i riflettori o nella maniera più oscura», aggiunge adesso Parsi, «non possiamo che tenerci stretto il sentimento del dovere per quello che è: una scelta». Una scelta ripetuta ogni giorno per rifarci a Renan.
In una delle quindici suggestive lezioni «per amare la storia» che ha raccolto nel libro Ieri, oggi, domani (Piemme), Adriano Prosperi si è soffermato sul disfacimento dell’Urss e la successiva «invenzione di tante nuove identità collettive». Si formarono dopo la caduta del muro «nazioni dalle costituzioni nuove di zecca che proiettarono in un remoto passato mitico caratteri originari». E «si attribuirono tradizioni in gran parte inventate». Tale «processo di aggiustamento del passato in funzione del presente» ha caratterizzato, secondo Prosperi, anche «la nuova realtà politica del percorso verso l’unità europea». Si scoprì nell’occasione che i manuali di storia diffusi nelle scuole erano costellati di riferimenti deformati e ostili agli altri Paesi europei. Nei libri di testo francesi, ad esempio, era rimasta presente e diffusa, in definizioni e narrazioni violentemente antitedesche, l’eredità morale delle guerre come quella franco-prussiana del 1870. O l’ossessione della revanche che animò la mentalità francese e la portò non solo al recupero dell’Alsazia-Lorena, ma anche all’imposizione alla Germania, dopo il 1918, di durissime riparazioni di guerra. Una decisione che ebbe parte considerevole nello spingere la Germania tra le braccia di Adolf Hitler. Ed è oggi unanimemente considerata tra le cause della Seconda guerra mondiale.
Fu per questo motivo che, «quando l’unificazione europea cominciò a passare dall’utopia alla fase costruttiva», vennero costituiti gruppi di studio per «ripulire» i manuali di storia «dai nazionalismi e dalle reciproche ostilità». Uno dei casi in cui il compito degli storici è stato quello di «correggere il racconto delle tante storie nazionali» per avvicinarsi a un punto di vista più vasto e «non più dominato dal risentimento e dalla volontà di potenza». Pur se non tutto ciò che va nel senso di appartenenza a una nazione, ammette Prosperi, è frutto di aggiustamenti d’occasione.
Dopo aver preso atto che tra il 1943 e il 1945 si è irrimediabilmente rotto qualcosa, abbiamo assistito a lungo a comportamenti ossessivi di negazione del lutto (nelle due versioni possibili: «la Patria non è mai morta» o «quella che è morta non è la mia vera Patria»). Oppure ci siamo fatti prendere da sentimenti di melanconia, di rimpianto per la Patria irrimediabilmente perduta. Ma, avverte Parsi, nessuno di questi sentimenti ci consente di fare passi in avanti. Dovremmo invece elaborare il lutto. Andare «oltre l’idea di nostalgia» intesa come rimpianto per qualcosa di irrimediabilmente perduto. Oltre la sensazione, cioè, di essere esiliati dalla Patria, sensazione che provano i soldati e i marinai che per lunghi periodi sono costretti lontano da casa, di cui l’archetipo è l’Ulisse omerico. E abbracciare piuttosto un altro tipo di nostalgia, intesa come memoria di una eredità, «una gratitudine per ciò che sentiamo la radice della nostra identità». La riscossa rispetto alla morte della Patria, è la conclusione di Parsi, passa per l’elaborazione del lutto, per la capacità di liberarsi dalle tentazioni nostalgiche o dalle rimozioni. Non c’è psicoanalista, partito o leader politico che possa compiere questo sforzo al posto nostro. Tocca a noi. Oggi più che mai, non possiamo restare gli unici orfani in un mondo e in un’Europa in cui nessuno rinnega la propria Patria. E a ragion veduta.