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 2023  novembre 08 Mercoledì calendario

Le mille voci del corpo

Si potrà mai trasformare in suono un tracciato elettrocardiografico, fatto di colline, avvallamenti, picchi intervallati da brevi linee rette? Se ti avventuri in una sala di rianimazione troverai tanti tracciati su altrettanti monitor, scanditi ciascuno da bip, bip, bip così preziosi quei bip per infermieri e medici, ma tanto noiosi per chi è malato ed è esposto a quel suono giorno e notte. Eppure sì, certi medici con certe analisi digitali estremamente sofisticate hanno trasformato il tracciato di carta in suono, al punto da essere riusciti a farlo persino con le informazioni che c’erano su un uomo di cento anni, nato prima della Rivoluzione francese. L’esplorazione del cuore comincia con René Laennec, il suo stetoscopio dei primi dell’ottocento fu il simbolo della medicina che passava dai pregiudizi all’evidenza; ma quel grande medico fu irriso dai professori dell’università, in Francia ma anche in Italia. I giovani no, lo presero molto seriamente, tanto che uno dei suoi studenti, Alexandre, si innamorò dello stetoscopio e si convinse che quell’oggetto poteva essere utile per stabilire la posizione del feto in gravidanza e se fossero per caso due e per farsi un’idea della curva di crescita.
Un giorno Alexandre (Le Jumeau) si trova a studiare i movimenti del feto di una donna che avrebbe partorito di lì a poco, avverte un ticchettio, non ha idea di cosa possa essere, la frequenza è fra i 140 e i 145 al minuto, in certi momenti anche di più, ma i battiti della mamma sono 70-75; adesso sappiamo che il ticchettio che ricorda quello dell’orologio era il battito cardiaco fetale. Nel ripetere le sue ricerche Alexandre scopre anche il soffio placentare, sincrono con il cuore della mamma questa volta; quel suono gli ricorda il «soffio al cuore», così familiare ai cardiologi, ma sono le arterie uterine.
Oggi lo stetoscopio di legno non si usa più, è soppiantato dall’ecografia. Il suono del cuore del feto amplificato dalla sonda ricorda quello di un treno a vapore; la mamma quando sente quel suono dimentica di colpo le fatiche della gravidanza. Ma se qualcosa non va per il verso giusto, è proprio il suono dell’arteria ombelicale e dei vasi uterini che aiuta a diagnosticare gravidanze complicate, rallentamenti di crescita, ipertensione, anemia. Invece quando procede tutto bene (ed è quasi sempre così) il prossimo appuntamento col suono è il primo vagito o il primo pianto, buon segno, chi è lì in quel momento tira un sospiro di sollievo. Ma che sta succedendo? È la prima inspirazione e la prima espirazione di quell’esserino che non ha mai avuto occasione di respirare. Chi gli ha insegnato a piangere, allora? Studi recentissimi hanno fatto vedere come già mesi prima del parto il feto sappia assumere una espressione facciale simile al pianto, è come se si stesse allenando; insomma la voce si forma in utero.
E che dire del respiro? Se appoggi il fonendoscopio al torace puoi sentire ogni sorta di suono: murmure – ed è normale – e poi crepitii, rumori umidi, fremiti, sibili, soffi, ronchi, rantoli, persino un suono di bandiera, e c’è anche il «silenzio respiratorio»; ciascuno di quei suoni rimanda a una condizione di malattia. È per orecchi esperti, ma riconoscere questi suoni per tempo può fare la differenza. Adesso c’è molto di più: sistemi (Body Beat, per esempio) che rilevano lo stato di salute degli organi attraverso il suono, non solo per il polmone ma per tutto il resto; un microfono a lato del collo o anche dietro l’orecchio amplifica suoni che, se no, non sentiremmo, al punto da cogliere le vibrazioni della cute e perfino delle ossa. Anche lo stomaco ha un suo suono, da cui si può risalire alle abitudini alimentari degli ammalati, ma anche di chi sta bene.
I rumori degli ospedali analizzati con gli elettroencefalogrammi: pompe
di infusione e campanelli di chi ha bisogno di aiuto, quelli più fastidiosi
C’è niente che si possa dire del cervello? Moltissimo, gli studiosi vorrebbero interfacciarlo con i computer; uno degli obiettivi, forse il più ambizioso, è restituire la parola a chi l’ha persa. In California, ad ammalati – già con elettrodi posizionati sulla superficie del cervello per monitorare crisi epilettiche – hanno fatto ascoltare una canzone dei Pink Floyd; quei sensori hanno catturato onde elettriche di certe regioni dell’encefalo in rapporto agli elementi musicali di «Another brick in the wall», e in questo modo hanno potuto ricostruire la musica, creata – è proprio il caso di dirlo – dal cervello stesso.
Ma suoni e rumori possono anche fare male: «Buon giorno», dico una di queste mattine a un ammalato dell’Ospedale. «Come va?» «Bene, cioè abbastanza bene», mi risponde. E io: «Perché abbastanza, non si trova bene qui da noi?» «Dormo male.» «Che succede?» «Le infermiere sono gentili, ma alle sei del mattino accendono la luce e mi svegliano: è l’ora del termometro. Ma io la febbre non l’ho, non l’ho mai avuta. E poi c’è la pressione. Perché? La mia è sempre stata normale, certo che se mi svegliano in quel modo lì si alza, e non mi riaddormento più». Così certi neurologi hanno pensato di registrare i rumori dell’Ospedale per poi farli ascoltare ai loro studenti mentre dormivano; nel frattempo per ciascuno degli studenti registravano un elettroencefalogramma. Dall’analisi di quei tracciati si è capito come ciò che dà più fastidio sono gli allarmi delle pompe di infusione, i campanelli di chi ha bisogno di aiuto, i telefoni che suonano a lungo prima che qualcuno riesca a rispondere. Per rimediare, in tempi di Covid, in certe terapie intensive si è pensato alla filodiffusione; si voleva attutire, con la musica, il suono un po’ angosciante dei respiratori.
E c’è anche chi non emette suoni, non batte né respira, ma è più importante di tutto il resto: si tratta del rene. Milioni di anni fa eravamo pesci e abbiamo potuto lasciare gli oceani e abitare la terra proprio per via del rene. Il rene lavora nel più rigoroso silenzio, incessantemente, e riesce a mantenere sempre costante composizione e volume del liquido che bagna tutte le cellule. Se non fosse per il rene vivremmo ancora negli stagni, gonfi come ranocchi. Senza rene non ci sarebbero filosofi.