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 2023  novembre 08 Mercoledì calendario

La storia di un’idea diventata Stato

«Non credo sia possibile uno Stato degli ebrei sino a quando il Messia non sarà arrivato, sono contrario alla sua conferenza nella nostra città», rispose il rabbino capo di Berlino a Theodor Herzl. Colui che è considerato il leader fondatore del sionismo moderno chinò il capo senza troppo discutere e traslocò a Basilea.
Era il 1897: Herzl (1860-1904), un ebreo ungherese che faceva il giornalista a Vienna. Era il tipico assimilato con poca conoscenza della sua tradizione religiosa, venne spinto a cercare una soluzione all’antisemitismo dopo l’affaire Dreyfus in Francia e in risposta ai continui pogrom contro le comunità nell’est europeo. L’anno prima aveva scritto un pamphlet, Lo Stato degli Ebrei, in cui sosteneva che loro non erano solo una religione, bensì un gruppo nazionale in attesa di realizzare il proprio destino. Si differenziava dagli slanci di piccoli gruppi messianici del passato, che nei secoli avevano propagandato la necessità della ricostruzione del regno d’Israele. Le sue idee, piuttosto, erano figlie dei movimenti nazionali laici europei e dei problemi crescenti per gli ebrei, che dopo avere beneficiato della diminuzione del tradizionale antigiudaismo cristiano in un continente progressivamente più secolarizzato, subivano ormai l’antisemitismo razziale.
Dove andare?
Ecco allora la risposta del sionismo: gli ebrei dovevano difendersi da soli, avere un esercito, farsi Stato. Ma i contrasti interni furono duri sin dall’inizio. Era più importante redimere la terra degli antichi regni d’Israele, oppure salvare il popolo ebraico dalle persecuzioni nella diaspora creando al più presto un suo Stato ovunque fosse possibile? (Ci fu chi propose di creare un’enclave ebraica in Argentina o in Madagascar). Si potevano fondare gli insediamenti agricoli senza la benedizione dei rabbini? E che fare della popolazione araba: integrarla, pagarla e incentivarla affinché se ne andasse, oppure espellerla con la forza se necessario? Su questo punto il primo sionismo spesso glissava. Dopo il Congresso di Basilea il consiglio rabbinico di Vienna inviò una delegazione nella regione per capire che ne pensassero gli arabi. Risposero lapidari: «La sposa è magnifica, ma unita a un altro uomo».
Nacquero allora due scuole di pensiero. Per la sinistra laburista ciò che contava era la qualità della popolazione: meglio avere una terra più piccola, però con una netta maggioranza ebraica. David Ben Gurion (1886-1973), il costruttore dello Stato, fu pronto a molti compromessi, compresa l’accettazione del piano di partizione della Palestina proposto dall’Onu nel 1947, pur di ottenere la legittimità internazionale. La destra revisionista, più legata alla tradizione religiosa, considerava invece fondamentale tornare ai confini di due millenni fa. Era la terra a determinare il tasso di ebraicità. Ze’ev Jabotinsky (1880-1940), suo capo carismatico a periodi ispirato al fascismo italiano, si opponeva in ogni modo alla partizione: solo la forza avrebbe imposto il fatto compiuto. In un celebre articolo del 1923 scriveva che gli arabi si sarebbero opposti «in ogni modo alla presenza ebraica sino a che avranno la speranza di scacciarci» e dunque occorreva un «muro di ferro».
Intanto, era iniziato il fenomeno dell’Aliya, «la salita», l’immigrazione. La prima ondata fu tra il 1882 e il 1902, circa 30.000 ebrei quasi tutti dell’est europeo, avevano raggiunto la Palestina ottomana. Ma fu la Seconda Aliya, 40.000 dal 1904 al 1914, a costituire la pietra miliare di quello che sarebbe stato l’Yishuv, la comunità ebraica prima della nascita dello Stato: coesa, determinata, fondatrice dei kibbutz, delle unità militari e delle istituzioni che poi dal 1947 al 1949 avrebbero permesso di vincere la Guerra d’Indipendenza. Furono loro a concepire l’idea dell’«ebreo nuovo». Si ispiravano al mito dei cananei; tramite il lavoro agricolo si sarebbero «sposati» alla terra, l’avrebbero ebraicizzata, rovesciavano la piramide sociale della diaspora. Negli shtetl europei erano cambiavalute, banchieri, negozianti, maestri, impiegati; qui diventavano contadini, operai, soldati. Il 2 novembre 1917, quando il ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour consegna a Lord Rothschild la celebre Dichiarazione, in cui per la prima volta si parla di un «focolare ebraico» in Palestina, l’Yishuv conta circa 56.000 persone, contro oltre 600.000 arabi.
Guerre e rinascita
Le nuove colonie sono concentrate in Galilea, attorno ad Haifa, nella piana costiera di Jaffa. Ma adesso c’è il riconoscimento internazionale, i leader sionisti cercano il sostegno inglese, americano, visitano le capitali europee. L’immigrazione cresce dopo la Prima Guerra mondiale. Le prime rivolte arabe importanti sono del 1920. Gli inglesi impongono i primi «libri bianchi» per limitare l’immigrazione. Nel 1929 il grave pogrom di Hebron prelude alle vaste sommosse antiebraiche del 1936, quando il parlamento britannico invia la Commissione Peel che afferma: i due popoli non possono convivere, occorre creare due Stati. La Seconda Guerra mondiale congela il conflitto. Ma nel 1945 l’emergere dell’abisso dell’Olocausto ridà legittimità e riconoscimento alla necessità di uno Stato per gli ebrei. Scatta la guerriglia. Gli inglesi decidono di abbandonare la regione entro la primavera 1948. Gli eserciti di Egitto, Giordania, Iraq, Siria e Libano attaccano assieme alla guerriglia palestinese e vengono sconfitti. Prima della guerra gli ebrei nella Palestina mandataria erano 630.000, gli arabi 1.350.000. Il 14 maggio nasce Israele. Nel suo territorio gli ebrei adesso sono 720.000, gli arabi 156.000.
(1/continua)Dalla cacciata
ai Sei giorni
dal nostro inviato a Ashkelon Lorenzo Cremonesi
Il tabù (poi sfatato) dell’espulsione degli arabi,
la scelta occidentale, le guerre: i primi vent’anni

«Che cosa dobbiamo fare della popolazione araba rimasta nelle sue case?», chiesero Yigal Allon, Yitzhak Rabin e altri tra i giovani comandanti del neonato esercito israeliano a David Ben Gurion. Si era nel pieno delle battaglie per Lidda e Ramleh nel luglio 1948. Le forze ebraiche stavano vincendo, eppure ancora attorno alle colline di Gerusalemme la Legione giordana resisteva sulle mura della Città Vecchia e dalle alture di Jenin le sue unità, rinforzate dal corpo di spedizione iracheno, minacciavano le comunicazioni per Haifa. Da sud gli egiziani restavano attestati nel Negev.
La presenza di una sacca di popolazione araba ostile sulla strada strategicamente vitale che univa Tel Aviv a Gerusalemme poteva rappresentare un pericolo. «Ben Gurion fece un gesto deciso della sua mano che diceva: buttateli fuori…», notava Rabin nelle sue memorie. In poche ore oltre 50.000 persone, compresi vecchi e bambini, furono costrette «con la forza» a marciare nel caldo per una trentina di chilometri per raggiungere le colline della Cisgiordania. Sino a oltre tre decadi fa questo era uno dei testi più noti che parlava esplicitamente di un preciso piano di espulsione della popolazione araba durante la Guerra d’Indipendenza israeliana. Lo aveva scritto un soldato pluridecorato, destinato ad essere due volte premier e che sarebbe stato assassinato nel 1995 da un estremista ebreo contrario ai negoziati con Arafat in nome della divisione della terra in cambio della pace. Ma la prima pubblicazione nel 1979 era stata tenuta sottotono: per lungo tempo in Israele parlare dell’espulsione forzata degli arabi fu un tabù. La propaganda ufficiale narrava di fughe precipitose, di panico diffuso, di interi villaggi convinti a partire dai capi della resistenza palestinese locale e degli eserciti arabi con la promessa che «dopo la vittoria sarebbero tutti tornati».
Ci sarebbe voluto il fenomeno dei cosiddetti «nuovi storici» dall’inizio degli anni Ottanta – intellettuali come Benny Morris, Tom Segev, Avi Shlaim, Meron Benvenisti – che in alcuni libri fondamentali hanno smontato uno dei dogmi originari di Israele. E dimostrato che sin dalla fine del 1947 crebbe il progetto di limitare al massimo il numero di arabi nei territori del nascente Stato ebraico. Oggi è ormai generalmente accettato che oltre 700.000 arabi furono scacciati dai territori di Israele. A facilitare l’operazione fu tra l’altro l’emigrazione volontaria nei mesi precedenti delle classi medio-alte verso Beirut, Damasco, Amman o Il Cairo. Medici, ingegneri, avvocati, maestri di scuola, proprietari terrieri e gran parte del corpo dirigente del popolo palestinese, così come era venuto sviluppandosi dal collasso dell’Impero Ottomano e sotto il Mandato Britannico, rafforzato nella sua identità nazionale dalla lotta contro il sionismo, di fatto scapparono, preferirono trovare rifugio all’estero. I fellahim abbandonati a loro stessi ebbero ben poca speranza di resistere.
Ma c’è di più: gli eserciti arabi accorsi con lo slogan ipocrita di sostenere i palestinesi non ebbero alcun coordinamento tra loro. Anzi, fecero a gara per occupare intere regioni a scapito degli «alleati». Re Abdullah di Giordania aveva stretto accordi segreti con Golda Meir, che travestita da beduino era andata a trovarlo nel suo quartier generale. Tanto che nel 1950 lui si sarebbe annesso Cisgiordania e Gerusalemme Est. Una mossa contestata dai palestinesi e pagata con la vita: venne assassinato l’anno dopo da un jihadista dei Fratelli Musulmani legato al Mufti di Gerusalemme – Amin Al-Husseini, che dagli anni Venti guidava la resistenza palestinese – mentre pregava nella moschea Al Aqsa della città santa.
Furono gli Stati Uniti a riconoscere per primi de facto Israele all’Onu il 14 maggio 1948. Ma l’Unione Sovietica lo riconobbe de jure già tre giorni dopo. Il nuovo Paese era soprattutto concentrato ad accogliere gli scampati alla furia nazista. Dal 1945 alla nascita dello Stato erano arrivati in 100.000, almeno 70.000 sopravvissuti ai campi di sterminio. Emerse però una realtà terribile: la quasi totalità dei cittadini potenziali in Europa era morta nell’Olocausto. Fu allora che si decise di favorire l’immigrazione degli ebrei dai Paesi arabi. Nei primi 4 anni di esistenza dello Stato la dirigenza askenazita lavorò per accogliere le masse sefardite, che rappresentarono oltre la metà dei migranti. Nacquero forti tensioni sociali destinate a incancrenirsi.
I primi cittadini
Tra ‘45 e ‘48 arrivarono 100 mila nuovi cittadini, 70 mila sopravvissuti all’Olocausto
Inizialmente non fu neppure chiaro che scelta avrebbe fatto Israele nel contesto della Guerra Fredda. Per qualche tempo la dirigenza sovietica lo guardò come un alleato. Le armi russe giunte tramite il ponte aereo dalla Cecoslovacchia avevano aiutato a vincere. Molti dirigenti sionisti venivano dalle province dell’Urss, il kibbutz (che non raggiunse mai il 6 per cento della popolazione, ma per un paio di decenni incarnò i valori collettivi) s’ispirava ai modelli economici socialisti. Per contro, gli americani erano legati alle monarchie arabe conservatrici e a lungo Washington non dimostrò troppo entusiasmo. Fu soltanto durante la Guerra di Corea che Ben Gurion scelse senza ambiguità di stare nel campo Occidentale.
Nacquero allora i due miti fondativi rispettivamente dello Stato ebraico e della resistenza palestinese: la Shoah, lo sterminio; e la Nakba, la catastrofe dell’espulsione dalla propria terra. Israele era lo Stato nato per difendere tutti gli ebrei. L’incubo della Shoah divenne un’ottima motivazione per legittimare la propria difesa muscolare. Un concetto ribadito con forza ai tempi del processo contro Adolf Eichmann nel 1961. Allora la filosofa Hannah Arendt denunciò il pericolo di una strumentalizzazione della tragedia ebraica per motivi politici. «Non c’è stato leader arabo nemico che non sia stato paragonato a Hitler», sostiene spesso Tom Segev. Da qui il concetto israeliano della guerra di «ein breirà», senza alternativa, da combattere e vincere a tutti i costi, ad ogni prezzo, per evitare il ripetersi dell’Olocausto.
Da allora è stata per esempio di «breirà», di scelta, la guerra del 1956. Allora Israele decise di allearsi con Francia e Inghilterra contro il regime egiziano di Gamal Abdel Nasser. Un conflitto di stampo coloniale per il controllo del Canale di Suez, che si risolse in un flop totale e vide Washington intervenire per costringere Israele ad abbandonare il Sinai e la striscia di Gaza appena conquistati. Gli storici locali dibattono invece ancora adesso se la Guerra dei Sei Giorni sia stata inevitabile, cioè esistenziale come quella del 1948, oppure una «breirà» che poteva essere evitata.
Nasser, leader carismatico della decolonizzazione e del pan-socialismo arabo, aveva fatto dell’Egitto le testa di ponte dell’influenza sovietica in Medio Oriente e della lotta contro Israele. Prigioniero della sua retorica, chiuse Suez agli israeliani e bloccò l’accesso a Eilat dal Mar Rosso. Fu il casus belli: all’alba del 5 giugno 1967 gli israeliani attaccavano di sorpresa l’aviazione egiziana annientandola, poi passarono a colpire la Siria. Chiesero a re Hussein di Giordania di non intervenire. Lui rispose bombardando Gerusalemme Ovest. Sei giorni dopo la vittoria israeliana aveva totalmente rivoluzionato il Medio Oriente.
(2/continua. La prima puntata è uscita il 4 novembre)