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 2023  novembre 08 Mercoledì calendario

Solo il 3% di tasse così Big Tech in Italia ha costruito un impero


Il caso Airbnb potrebbe non essere isolato. In Italia, ma anche nel resto d’Europa, si cercano soluzioni in grado di evitare che il settore Big Tech continui a macinare profitti da record senza che questi entrino nel mirino dell’erario. La presunta evasione di Airbnb, circa 779 milioni di euro, ha riacceso i riflettori su una distorsione dei sistemi tributari globali. Nel caso dell’Italia, la tassazione media del comparto, in prevalenza quello delle sussidiarie dei colossi statunitensi del web, è del 25,1% (33,5% se si conta anche la Digital tax). Vale a dire la metà delle piccole e medie imprese (pmi) del Paese. Con la diretta conseguenza che nel 2021 il Big Tech globale in Italia ha pagato 186 milioni di euro di tasse, a fronte di ricavi per circa 6 miliardi.
La pandemia di Covid-19 e i lockdown hanno dato forte impulso alla digitalizzazione. E l’intelligenza artificiale di ultima generazione l’ha consolidata. Con il risultato che i profitti del segmento Big Tech sono stati significativi. Non è andata di pari passo la riscossione delle imposte, tuttavia. Nel 2020 le piccole imprese con meno di 5 milioni di euro di fatturato hanno versato 19,3 miliardi di euro di imposte. Nel 2021, invece, le 25 filiali italiane dei principali gruppi mondiali di web e software hanno dato 186 milioni di euro. Non è un unicuum. Secondo l’analisi di Mediobanca, «nel 2021 circa il 30% dell’utile ante imposte delle 25 maggiori WebSoft mondiali è tassato in paesi a fiscalità agevolata, con conseguente risparmio fiscale di 12,4 miliardi di euro nel 2021 e di 36,3 miliardi nel triennio 2019-2021». Numeri che potrebbero essere ancora più elevati per il biennio successivo. Sempre secondo il centro studi di Piazzetta Cuccia, a livello di singoli gruppi, nei primi nove mesi 2022 si è registrata «l’impennata dei ricavi delle statunitensi Uber (+99,3%), Booking (+63,5%) ed Expedia (+43,2%), seguite a distanza dalla coreana Coupang (+14,4%) e dalla giapponese Rakuten (+13,7%)».
Quella relativa a Airbnb non è una vicenda a sé stante. Fonti governative riferiscono che l’Italia prenderà tempo fino alla fine dell’anno per una prima valutazione della società madre di Facebook, ovvero Meta, riguardo all’inchiesta avviata dalla procura di Milano a fine febbraio: secondo i Pm, la società statunitense potrebbe dover pagare circa 870 milioni di euro per aver evaso le tasse sui dati acquisiti dei singoli utenti, che secondo l’accusa della Gdf permettono di profilare in modo «economicamente rilevante» i soggetti stessi. Le verifiche sono terminate e ci si attende un responso. Nonostante si tratti di una somma poco rilevante ai fini del bilancio della compagnia di Mark Zuckerberg, potrebbe essere un precedente degno di rilevanza giuridica. E che potrebbe attirare l’attenzione, come rimarcato anche dagli analisti di Jefferies, sull’intero sistema di tassazione su scala planetaria.
Il meccanismo è semplice. Come evidenziano gli esperti della società finanziaria statunitense, i giganti del tech possono ottenere posizioni fiscali privilegiate in quanto i loro servizi, spesso, possono essere considerabili come “immateriali”. Ma la dematerializzazione del prodotto ha implicazioni anche sugli schemi di tassazione. «Data la mancanza di armonizzazione, spesso ci si ritrova in un Far West regolamentorio che le unità legali di queste società sfruttano nel dettaglio», spiega un alto funzionario europeo dietro esplicita richiesta di anonimato. «Gli Stati membri spesso vanno su direzioni non così uniformate», fa notare, «con posizioni di vantaggio competitivo da un punto di vista fiscale che è difficile contestare».
Ne deriva uno squilibrio evidente. Se si analizza il livello medio di tassazione delle Big Tech emerge che, secondo Mediobanca, si colloca al 33,5%. Di contro, quello delle Pmi è stimabile intorno a quota 50%. Le ragioni per cui le controllate presenti in Italia delle multinazionali del web possono beneficiare di un tax rate del 33,5% derivano dal fatto che il 30% circa dell’utile ante imposte è tassato nei Paesi a fiscalità agevolata che ha dato luogo a un risparmio fiscale cumulato che, nel periodo 2019-2021, è stato di oltre 36 miliardi di euro. Una prima soluzione potrebbe giungere dall’applicazione della Global minimum tax (Gmt) con aliquota al 15% in capo alle multinazionali che fanno fatturati oltre i 750 milioni di euro. La misura, introdotta da una direttiva europea del dicembre 2022, entrerà in vigore dal 2024 e dovrebbe consentire al nostro Paese di incassare circa 3 miliardi di euro aggiuntivi.
C’è poi l’imposta sui servizi digitali (Digital service tax, o Dst), con un’aliquota del 3%. Secondo uno dei rapporti dell’avvocato Maurizio Logozzo, professore di Diritto tributario dell’Università Cattolica di Milano, c’è bisogno di più equità fiscale. E anche se positiva, sulla Dst «permangono delle incertezze applicative di fondo e dei forti limiti intrinseci, uno tra tutti, la transitorietà delle misure adottate». Quello che è certo è che «si sia raggiunto un maggior grado di consapevolezza nel tassare i profitti derivanti dall’economia digitale, ma che ciò sia effettivamente ed efficacemente possibile solo tramite una leale collaborazione e una cooperazione unitaria tra gli Stati». Occorre, secondo Logozzo, «l’elaborazione di un criterio di tassazione coerente e certo da applicare in modo uniforme in tutti gli Stati interessati». In assenza di ciò, traslocare la sede laddove è più semplice trovare vantaggi fiscali è la soluzione più battuta. —