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 2023  novembre 08 Mercoledì calendario

Robbie & C. il lato oscuro del pop

La scena è la Gran Bretagna, anzi, l’Inghilterra dell’ultimo decennio dello scorso secolo, gli ultimi anni felici (o almeno molto molto ricchi) del pop analogico, un’industria nata con i Beatles e destinata a finire catturata e poi fatta a pezzi dalla Rete. Il protagonista è un ragazzo del Nord dell’Inghilterra che a 16 anni molla la scuola per entrare in una boy band. Lui si chiama Robert Peter Williams, per tutti Robbie, la band si chiamerà Take That. Dei cinque prescelti, Robbie è il più piccolo. Ha 16 anni, gli altri sono intorno ai 20, una bella differenza a quell’età.
La miniserie di quattro episodi, intitolata semplicemente Robbie Williams, che da oggi è disponibile su Netflix e che abbiamo visto in anteprima, parte da qui. È costruita su migliaia di ore di riprese che – si dichiara in apertura del primo episodio – neppure lo stesso Williams aveva visto prima. E infatti il racconto è tutto un rimbalzo tra le immagini di allora e i commenti del Robbie Williams di oggi, che ha quasi 50 anni (li compirà a febbraio), quattro figli e una moglie che ama, riamato.
La storia è interessante, ricca di salite vertiginose (il successo quasi mondiale – non americano – dei Take That, gli exploit da solista, Glastonbury nel ’98, i tre concerti consecutivi a Knebworth nel 2003 per un totale di 375 mila spettatori) e di discese tutte interiori, spesso drammatiche, nascoste e ora rivelate. Aprono e chiudono il racconto, che naturalmente ha un finale che guarda al futuro, i due mesi in clinica nel ‘97 per disintossicarsi da alcol e droghe e il ritiro dalle scene nel 2007 per entrare in un rehab in Arizona. Ma sono le paure, il senso di inadeguatezza, le insicurezze a colpire. Sono il rumore di fondo della sua vita, si direbbe, e non hanno granché a che fare con il successo, la popolarità delle sue canzoni, il numero delle persone che lo vanno ad ascoltare, i dischi venduti.
La fabbrica del pop appare come un ingranaggio disumano che moltiplica, diffonde e ingigantisce l’immagine di un uomo, meglio, un ragazzo, che non può in alcun modo reggere l’urto di una popolarità così grande, fuori scala. «Il successo non guarisce niente» e più ancora «Ciò che alla fine mi distruggerà è ciò che mi ha dato il successo» sono le due riflessioni che rimangono. Ciò che rende affascinante, o almeno interessante, un artista o un’artista pop coincide dunque perfettamente con ciò che rende impossibile interpretare quel ruolo troppo a lungo.
È ciò che fa venire alla mente anche la lettura di The Woman in Me, l’autobiografia di Britney Spears che conserva il titolo americano anche nella versione italiana, appena uscita con Longanesi. Più giovane di Robbie Williams di otto anni, divenuta anche lei famosa da minorenne, Spears racconta una storia forse ancora più drammatica: un sistema e un business, quello dello spettacolo, profondamente maschilisti, le hanno di fatto impedito di diventare adulta: tra il 2008 e il 2021 è stata posta sotto la tutela legale di suo padre. Continuando peraltro a svolgere regolarmente il lavoro di popstar, con una residency di quattro anni di spettacoli a Las Vegas, per esempio.
Un antico e non del tutto infondato stereotipo nel mondo dello spettacolo diceva che delle pene e delle sofferenze di questi semidei baciati dalla fortuna, dalla popolarità e dalla ricchezza non importava a nessuno. Anzi, infastidiva. Qualcosa è decisamente cambiato. La sola Netflix, per fare qualche nome, offre oggi la miniserie Vasco Rossi – Il Supervissuto (tra i titoli dei cinque episodi, Sesso. Droga. Rock’n’roll. A un passo dalla morte), Five Feet Two su Lady Gaga, di cui si ricorda soprattutto la parte sulla fibromialgia, la malattia che le procura dolori cronici, How I’m Feeling Now, che racconta Lewis Capaldi, la sindrome di Tourette e le difficoltà degli artisti pop con un fisico non conforme.
C’è un modo cinico per considerare tutto ciò, che è più di un fenomeno, forse addirittura un segno dei tempi. Nel momento in cui la musica registrata (dischi, cd, ecc.) non è più una fonte di reddito e i videoclip promuovono non si sa che, qualcosa bisogna pur escogitare per far girare il proprio nome e dare profondità al personaggio. È cinico, è in parte vero, ma non è tutta la verità. Nell’era di Instagram e dei social, nella quale certe vite pop sono documentate in ogni minima piega e diventa essenziale occupare ogni possibile spazio, che cosa rimane da scoprire? In un’epoca in cui per lanciare una canzone si mettono insieme in tre o quattro in modo da sommare le cosiddette “fan-base” e questi accrocchi, detti “featuring”, si realizzano per procura, a distanza, senza che esista neppure una ragione che non sia squisitamente commerciale, che cosa resta da raccontare?
Poco o niente, ed è necessario andare a riscoprire le ultime star del vecchio mondo, quelle con migliaia di ore di riprese sgranate e inedite, che registravano i dischi su nastro, magari, come Robbie Williams, andando in Giamaica a cercare ispirazione. E che un giorno a Leeds si fanno riprendere in camerino e giurano che non saliranno mai più su un palcoscenico. —