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 2023  novembre 08 Mercoledì calendario

Computer, “Il mio dio” bambino

Quando abbiamo smesso di capire il mondo, noi fascisti e nazisti ci siamo lasciati scappare le menti più brillanti del XX secolo. Razzismo e antisemitismo sono stupidi e, alla lunga, deboli: la “fisica giudea”, laggiù in America, ha riscritto la storia dell’umanità, mentre l’unico rimasto nel Reich, l’“ebreo bianco” Werner Heisenberg, si è limitato a “cincischiare” qualcosa su un’arma di distruzione di massa. Tra i tantissimi neuroni in gita a Los Alamos, scritturati da J. Robert Oppenheimer per il Progetto Manhattan, ci sono quelli di John von Neumann, protagonista dell’ultimo incredibile romanzo di Benjamín Labatut, Maniac (Adelphi). “L’essere umano più intelligente del 900” qui compare soprattutto come padre dei moderni computer e profeta dell’Intelligenza artificiale, al di là dei suoi innumerevoli contributi scientifici su teoria dei giochi, fisica, economia, informatica, barzellette yiddish eccetera.
Nato a Budapest, allora la più grande mammella di geni, John è un “cavaliere dell’apocalisse”, uno degli “extraterrestri”, dice Enrico Fermi, “che esistono e sono già fra noi, solo che si fanno chiamare ungheresi”. Con lui, negli Usa, emigrano tra gli altri l’amico e futuro Nobel Eugene Wigner; Leó Szilárd, tra i primi a fantasticare sull’atomica nel ’33; Theodore von Kármán, ingegnere esperto di missili; Edward Teller, padre della bomba all’idrogeno…
Von Neumann all’anagrafe è János “Jancsi” Lajos, come il papà di Edipo, la cui fine è nota: pure John muore per colpa di suo figlio, un cancro sviluppato dopo i test sulle bombe (atomica e H). Non ha neanche 54 anni, lui che è stato un Wunderkind, macrocefalo e curioso: a 2 anni sa leggere, poi impara latino, greco, tedesco, inglese e francese; a 4 anni, vedendola che fuma, chiede: “Mamma, cosa stai calcolando?”; a 7 anni padroneggia l’analisi, recluso in biblioteca per aver dato fuoco ai capelli del maestro di scherma… Von Neumann è in grado di cannibalizzare qualsiasi branca del sapere, salvo poi non sapersi allacciare le scarpe o dimenticarsi il nome dei parenti. È “maniaco” delle donne, giocoso e visionario, un “alieno” tra gli alieni: persino David Hilbert, “il papa della matematica”, è stupito da quel 22enne dottorando – che si laurea intanto in ingegneria chimica – e balbetta: “Chi è il suo sarto?”. Di Hilbert Jancsi diventa il pupillo, ma la sua vita – e la sua poetica – cambia radicalmente quando incontra un altro strambo: Kurt Gödel. È il 1931; si apre ufficialmente la crisi dei fondamenti della matematica, comprese la pazzia di Georg Cantor e l’ossessione di Bertrand Russell. Anche von Neumann va in crisi, diventando cupo e tormentato, un “dio bambino” più capriccioso che giocherellone, come la sua creatura, il Maniac, prototipo di tutti i calcolatori a venire.
Dopo Princeton (dove è ordinario a 27 anni), l’Institute for Advanced Study e l’escursione nucleare in New Mexico, Jancsi inizia a collaborare fittamente coi militari e l’intelligence americani, aiutandoli, in Guerra fredda, a costruire un calcolatore per il nuovo mostro: la bomba H. Così nel 1946 nasce l’Eniac, una macchina di Turing finalmente funzionante, poi evoluta nel ’51 nel Maniac, prima Ai della storia. Von Neumann ha alte ambizioni: creare forma di vita intelligente, automi auto-replicanti, ecosistemi digitali, macchine che pensano e imparano. Vuole erigere “uno schema universale per unificare biologia, tecnologia e informatica”, trovare le affinità elettive tra la mente umana e il cervello della macchina, pensiero e calcolo, linguaggio naturale e computazione artificiale: “Il calcolatore deve crescere da solo, non essere costruito: comprendere il linguaggio, leggere, scrivere, parlare. E giocare, come un bambino”. Quel “dio bambino” che anche John, un tempo, è stato.
“I fisici si credono dèi. Ma Dio si crede un matematico”: la divinità è l’Altra sublime protagonista di questo saggio romanzato, di non eccelso valore letterario, ma di inesauribili gioia e terrore. “Per il progresso non c’è cura: il pericolo è intrinseco”. Allora non resta che appellarsi a un dio minore rispetto alla razionalità, alla techne, alla scienza, e abbandonarsi a deliri religiosi, stringendosi malamente i tefillin attorno al braccio. Il genio, si sa, è follia: non solo quella di von Neumann, in preda ai fantasmi dell’alcol e dei robot… Gli altri, al suo cospetto, non possono che soccombere o dissentire, vedi la seconda moglie suicida o il precettore dell’infanzia, Gábor Szeg,ő che intuisce subito la “sinistra intelligenza meccanica a cui mancano i freni”.
Nel libro, precedono e seguono Von Neumann altri due primattori dell’algoritmo: Paul Ehrenfest – prof. di meccanica, amico di Albert Einstein e Niels Bohr, tra i primi a rimanere scioccati dalla rivoluzione quantistica, troppo astratta, matematica, inumana – e Lee Sedol, il più grande campione di go – un antichissimo gioco cinese, una forma d’arte e spiritualità molto più complicata degli scacchi (qui l’Ai sconfigge Garri Kasparov nel 1997) – battuto da una macchina nel 2016 con mosse sbalorditive, “creative, perfette, ispirate, eleganti, belle, colpi di genio…”. L’uomo vince una sola partita su quattro grazie alla “mano di Dio”, una giocata divina che manda in tilt il computer. Ma alla fine AlphaGo, questo il nome della macchina, viene premiata per i suoi “sforzi di raggiungere un livello prossimo al territorio della divinità”. Ed è già pronta la sua evoluzione intelligente, AlphaZero, “l’entità più forte che il mondo abbia mai conosciuto a go, scacchi e shogi”. C’è solo da sperare che avesse ragione Einstein: “Dio non gioca a dadi”. È impegnato altrove.