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 2023  novembre 08 Mercoledì calendario

L’infanzia agra di Dacia Maraini, prigioniera in Giappone

Dove comincia Bagheria, uno dei libri più belli di Dacia Maraini, finisce questo nuovo romanzo, Vita mia (Rizzoli). C’era una tessera di racconto mancante – annunciato, abbozzato, mai completato. In un altro libro, La nave per Kobe, l’autrice aveva promesso a sé stessa che un giorno avrebbe trovato la forza di ricostruire la memoria della prigionia in un campo di detenzione giapponese nei primi anni Quaranta.
 
È arrivato il momento. Maraini ha spiegato pubblicamente di avere sentito ormai inderogabile l’impegno: tanto più per i venti di guerra che sono tornati a soffiare luttuosamente in questi ultimi anni e a diverse latitudini. Vivere la guerra da bambini, avere sei, sette anni nell’orrore della privazione, della fame, della violenza: «la bambina Dacia» eccola là, con il vento che le soffia in faccia a bordo di un camion diretto al campo di concentramento. «Cosa sarebbe stato di noi?»: il padre, l’antropologo Fosco, è arrivato in Giappone con una borsa di studio e ha portato con sé la famiglia.
Al momento dell’armistizio, invitato ad aderire alla Repubblica di Salò, ha rifiutato. E così la moglie Topazia, interrogata separatamente. Come “traditori” vengono deportati a Nagoya, sorvegliati giorno e notte, costretti a diventare «zombi insonni» e affamati. Il ricordo più doloroso è forse proprio la fame: «Fosco, che era a volte spiritoso, diceva che eravamo diventati “scienziati della fame”». Maraini ricorda quelle giornate lontane trascorse nell’ossessione del cibo: giocava con le sue sorelle Toni e Yuki immaginando che le pietre fossero alimenti.
«La pietra lunga era un pescetto di fiume di cui immaginavo di sentire l’odore d’arrosto e assaggiare un boccone che sapeva di alga». L’evocazione del pane ancora caldo – quell’«odore unico, di grano abbrustolito, di prato rugiadoso, di fiore appena nato» – mi ha fatto pensare all’incipit di un romanzo del francese J.M.G. Le Clézio, Il ritornello della fame. Racconta gli stessi anni e con lo stesso struggimento confessa di non essere mai riuscito a dimenticare il gusto di un boccone di pane assaporato dopo una lunga privazione.
Le pagine di Maraini sono fittissime di dettagli sensoriali: tipico della sua scrittura, ma qui ogni particolare è il frutto dello sforzo a vincere «una ritrosia interiore, una timidezza che so di condividere con molti altri ex internati». La scrittrice recupera le testimonianze dei genitori, il lavoro di ricostruzione storica della sorella Toni, e pagina dopo pagina ritrova la paura, l’attesa, la speranza frustrata. I bombardamenti, il rumore degli aerei, la sirena d’allarme. I volti degli altri prigionieri. «Nei primi tempi al campo tutti erano amici e solidali. Poi, con il procedere delle privazioni, dei malanni dovuti al freddo e allo scarso nutrimento, sono cominciate le liti, le ripicche, gli scontri». Chi subisce una violenza ingiusta rischia di maturare un rancore che diventa odio (è un tema a cui Maraini, sulla scia del Levi de I sommersi e i salvati, ha dedicato un romanzo, Il treno dell’ultima notte). Ma esistono e resistono, anche nella peggiore e più brutale delle circostanze, spazi di dignità e sopravvivenza emotiva: «Nonostante il beri-beri e lo scorbuto che le gonfiavano le gambe, le facevano perdere i capelli e le facevano sanguinare le gengive», Topazia racconta storie alle figlie; Fosco prova perfino a cantare. E scrive: «Quelle brevi poesie scritte con la mano che tremava per il freddo e per le malattie erano una ragione di vita. Quelle poesie che consegnava a Topazia perché le nascondesse nella pancia dello spelacchiato orsetto bianco e nero che mia sorella Yuki non lasciava mai».
Vita mia è un libro di memoria e di testimonianza scritto con esemplare e antiretorica asciuttezza: Dacia Maraini va a fondo nella stagione più dura della sua esistenza e lo fa con pudore e coraggio insieme. Come in altri libri degli ultimi anni (penso per esempio a La grande festa), lavora su una prosa dall’andamento digressivo, con suggestive aperture sulla forza dei miti, sulle intuizioni dell’antropologia, sugli autori amati; mescola racconto puro e documento, investiga nel pochissimo investigato “fascismo giapponese”.
Con un tempismo quasi sconcertante offre una meditazione sulle «piccole nazioni armate l’una contro l’altra», sulle idee «antistoriche» che nutrono ogni conflitto, sulle macerie fisiche e sulle macerie emotive che lascia ogni guerra. E sull’ombra che resta nello sguardo di chi l’ha vissuta da bambino.
Il libro
Vita mia di Dacia Maraini (Rizzoli, pagg. 224, euro 18)