Corriere della Sera, 7 novembre 2023
La colpa di essere ricchi
Continuano in tutto l’Occidente i cortei pro-Palestina dove si sostiene Hamas e se ne legittima la violenza. Tra i giovani il movimento non si placa. Le denunce contro l’antisemitismo cadono nel vuoto. Anche per ignoranza. Un docente americano, di fronte a studenti che giustificano la mattanza di civili israeliani del 7 ottobre, ha evocato i «pogrom». Si è sentito chiedere: «Cosa sono?». Un pezzo di America progressista vive una crisi di coscienza, non sa come parlare alla propria gioventù, radicalizzata al punto da esaltare i terroristi.
L’antisemitismo è solo una parte della spiegazione di quanto succede nelle scuole, nelle università e nelle piazze, sui social. Colpisce il dialogo tra una mamma di Atlanta e una insegnante, tutt’e due elettrici democratiche, riportato sul New York Times. La mamma è sgomenta nello scoprire che la scuola indottrina a senso unico, con docenti che demonizzano Israele e legittimano le stragi di Hamas. L’insegnante le risponde così: «Starò sempre dalla parte di chi ha meno potere, meno ricchezza. Questo vale a prescindere dagli atti estremi commessi da alcuni militanti, esasperati a furia di vedere il proprio popolo morire».
Il dialogo tra la madre e la professoressa americane fornisce una spiegazione della straripante solidarietà per i palestinesi, che non esita a perdonare le stragi di innocenti israeliani. «Stare sempre dalla parte dei deboli» è un principio che va ben oltre i confini della sinistra, abbraccia valori di altri mondi come quello cristiano. È fondamentale per capire le giovani generazioni, e avviare un dialogo sul grande abbaglio di cui sono prigioniere.
Il principio per cui i più poveri hanno sempre ragione non viene applicato solo a favore dei palestinesi e contro Israele. Ha generato conseguenze in molti altri campi: dall’immigrazione clandestina alle politiche verso la criminalità, fino all’atteggiamento verso i Paesi ex coloniali che sembrano aver diritto a risarcimenti perpetui (a prescindere dall’uso dissennato che le loro classi dirigenti fanno di quei risarcimenti).
La ricchezza dell’Occidente, o quella di Israele, è diventata la prova schiacciante di una colpa; si accompagna alla certezza che questo benessere è il frutto di crimini contro l’umanità. Applicando questo dogma a tutto l’Occidente, la storia degli ultimi secoli dalla Rivoluzione industriale in poi è un vasto romanzo criminale, degno di Émile Zola: un paesaggio infernale di sfruttamento abietto, sofferenze, guerre coloniali, saccheggio delle risorse naturali. Nulla di buono ha fatto l’Occidente visto che la sua opulenza è legata alla miseria degli altri e al riscaldamento climatico. Tra le conseguenze di questa narrazione abbiamo l’illegittimità etica delle frontiere nazionali (come possiamo negare l’ingresso ai poveri della terra, se la loro sofferenza l’abbiamo creata noi?) e l’urgenza di bloccare lo sviluppo economico foriero di un’Apocalisse ambientale. Queste convinzioni animano tanti giovani.
Il confronto con queste generazioni – e con i loro insegnanti – deve abbracciare la storia dell’Occidente, del perché siamo quello che siamo. Senza la nostra Rivoluzione industriale, quella cosa orribile che ha insozzato il pianeta, oggi non sarebbero vivi tre miliardi di cinesi e indiani, o un miliardo e mezzo di africani: è la nostra agricoltura moderna a base di fertilizzanti e macchinari a consentire la loro alimentazione; è la nostra medicina ad avere ridotto la mortalità e allungato la longevità. I miracoli economici asiatici che hanno sollevato dalla miseria metà del pianeta sono accaduti copiando il modello scientifico e imprenditoriale dell’Occidente. Senza la nostra economia di mercato, che usa innovazioni per creare ricchezza, non esisterebbero le tecnologie verdi che consentono un futuro con meno emissioni carboniche. Schiavismo e colonialismo, praticati da tutte le civiltà umane (tra cui arabi, turchi, cinesi e russi) sono stati denunciati e superati in Occidente da forme più avanzate di capitalismo: il Nord anti-schiavista negli Usa aveva un’economia superiore al Sud delle piantagioni; l’America del 1956 impedì l’aggressione di Inghilterra-Francia-Israele contro l’Egitto di Nasser perché il modello Usa si fondava sul superamento dei vecchi imperi coloniali. Delle ex colonie capaci di spettacolare progresso economico, culturale, civile, in Asia, sono diventate in certi casi perfino più ricche di noi: non hanno praticato la cultura del vittimismo.
«I deboli hanno sempre ragione» si applica in modo perverso al confronto tra Israele e i suoi vicini. L’odierna ricchezza israeliana è recente. Nella prima fase della sua storia il Paese era socialista e povero. Il boom israeliano dagli anni Ottanta in poi è fatto di innovazione e imprenditorialità. La condizione dei palestinesi, la loro mancanza di diritti, è ingiusta e inaccettabile ma non spiega la prosperità d’Israele. I Paesi arabi suoi vicini hanno spesso aizzato l’antisemitismo per invidia e per dirottare l’attenzione dall’inettitudine delle proprie classi dirigenti. Da anni era iniziata una revisione, alcune classi dirigenti arabe avevano cominciato a considerare Israele come un modello da imitare anziché un nemico da distruggere. Purtroppo non hanno fatto in tempo a rieducare le loro masse e oggi la piazza araba è un ostacolo sulla strada di un ritorno alla pace.
In Occidente urge un dialogo con i nostri giovani: su cosa siamo noi, perché siamo arrivati fin qui. Una parte dei genitori americani stanno dedicando un’attenzione nuova ai programmi d’insegnamento. Proprio mentre Cina Russia e Turchia riscrivono i propri manuali scolastici per renderli ancora più impregnati d’orgoglio nazionale e di autostima, è giusto che da noi s’insegni a odiare la civiltà occidentale? Per conquistare consenso nel Grande Sud globale che ci volta le spalle, dovremo cominciare a ricostruirlo tra i nostri ragazzi e sui banchi di scuola.