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 2023  novembre 07 Martedì calendario

Chi è Mohammed Dahlan

GERUSALEMME Gli occhiali dalle lenti spesse e i baffetti si ingrigivano di polvere più l’uomo affondava le mani nei calcinacci per tirar fuori i documenti, fogli a migliaia sparsi tra le mattonelle prese a picconate. Hamas aveva appena catturato il simbolo del dominio di Fatah nella Striscia e stava cominciando a costruire il proprio. Le carte contenevano i nomi degli inquisiti, degli islamisti che la Sicurezza Preventiva incatenava negli scantinati di questo casermone vicino a Gaza City, che sbarbava per radere via dalle loro facce quel simbolo di devozione e lo sguardo arrogante. Le carte contenevano anche i nomi degli inquisitori, dei loro informatori, dei fondi tenuti nascosti. L’uomo sfogliava, scartava e prendeva appunti, calmo in mezzo al caos dei miliziani jihadisti, tornavano da vincitori nelle celle che li avevano visti vinti.Barricate opposteIl signore di quella prigione non era a Gaza nei giorni della sconfitta, del golpe che dal 2007 ha diviso in due i palestinesi, doppio governo e doppia autorità, che ha trasformato il corridoio di sabbia in un’entità regolata dalla sharia. Mohammed Dahlan era all’estero, gli è sempre piaciuto viaggiare, esplorare la bella vita – dicono i critici – lui che è venuto su tra i cubi non intonacati di Khan Yunis, a giocare per le strade immiserite con Yahia Sinwar, nati a un mese di distanza nel 1961. Cresciuti insieme, diventati adulti su barricate opposte: l’attuale capo di Hamas con i fondamentalisti che da subito vogliono scalzare il Fatah di Yasser Arafat, mentre Mohammed diventa il plenipotenziario del raìs a Gaza.
Dahlan fa parte della nuova generazione, i giovani – almeno rispetto ai padri fondatori della causa – che finiscono nelle carceri israeliane durante la seconda intifada, che in prigione imparano l’ebraico e ne fanno uno strumento di strategia, il linguaggio per parlare con l’avversario, per tentare – quando è possibile – il dialogo. A lui gli israeliani parlano tanto e questo ai palestinesi finisce con il piacere poco. Abu Mazen – che ha sempre rinviato il voto dopo quello del 2005 che l’ha eletto presidente – lo considera un avversario, un manovratore, essere stato a capo dei servizi segreti ha insegnato a Mohammed come muoversi tra vari poteri.
Lo accusa di tradimento, di complotto per deporlo, di aver passato ai giornali arabi le carte che rivelano gli intrallazzi e la corruzione dei due figli. Dahlan non può tornare a Ramallah, rischierebbe l’arresto. Ma si tiene in forma – 90 minuti di corsa al giorno ¬— per quando potrebbe trovarsi a sprintare verso il traguardo. Vive ad Abu Dhabi dove ha accumulato milioni di dollari e influenza sulle decisioni dell’emiro Mohammed bin Zayed Al Nahyan. Ancora una volta per l’anziano presidente, 87 anni, la prova che l’esiliato trama perfino a 2.400 chilometri di distanza, avrebbe negoziato per permettere gli accordi di Abramo, l’intesa di normalizzazione con Israele firmata dagli Emirati Arabi Uniti e considerata da Abu Mazen «una pugnalata alle spalle» dei palestinesi.
Dahlan ha mantenuto i contatti anche da lontano ed è convinto, spiega al settimanale britannico Economist, che nessun singolo leader – sottinteso: per ora neppure lui – possa prendersi la Striscia dopo Hamas, dopo la fine della guerra. Propone un governo di transizione che amministri i territori (Cisgiordania compresa) per un paio d’anni: formato da tecnocrati, un passaggio necessario per sanare il lungo periodo di lotte interne e spaccature tra le fazioni. Paesi come gli Emirati, l’Arabia Saudita, la Giordania, il Qatar dovrebbero intervenire per finanziare e sostenere l’esecutivo ad interim.
ElezioniDopo questo periodo – sarebbe il suo piano – i palestinesi potrebbero finalmente tornare a votare per il parlamento e a Hamas, che aveva vinto nel 2006, dovrebbe essere permesso partecipare. Il sistema dovrebbe essere modificato: più poteri al primo ministro e riduzione di quelli del presidente. «Che un uomo solo possa risolvere la questione palestinese è un’illusione. Il tempo degli eroi è finito con Arafat».