Corriere della Sera, 7 novembre 2023
Intervista ad Arrigo Sacchi
«È di poco più vecchio di me». Arrigo Sacchi mostra con orgoglio un leccio secolare, l’albero più alto e antico nel giardino della sua villa, che quasi fa ombra ai bagolari e ai salici piangenti. Nonostante i 77 anni compiuti lo scorso primo di aprile, cinquanta dei quali vissuti da allenatore, una avventura che cominciò proprio in questi giorni nel 1973, è ancora lui. L’allenatore che più di ogni altro ha segnato e cambiato la storia del calcio moderno, un italiano che in cuor suo non si sente tale, ma che purtroppo o per fortuna lo è. «Un Paese votato al tatticismo, dove solo il singolo e non il bene collettivo sembra avere importanza, dove contano più le conoscenze della conoscenza».
È la sua analisi sociopolitica. Ma è anche calcio, perché per lui il calcio è ancora vita, come dimostra «Il realista visionario», appena scritto con Leonardo Patrignani. Quasi un trattato di filosofia personale, applicabile non solo allo sport, con contributi importanti. Non aspettatevi mezze misure, non è il tipo. Sconti per nessuno, neppure a sé stesso. Per questo continua a far discutere ancora oggi con i suoi giudizi e le sue ossessioni, anche per questo gli si vuole bene. «Una vittoria senza merito non è una vera vittoria, ma questo è un concetto che l’Italia, il regno dei sotterfugi, non capirà mai».
Cominciamo dalla dedica?
«L’ultima volta che ho sentito il presidente fu due mesi prima della sua morte. Ripetemmo la nostra gag. Io che gli confesso di non riuscire a dargli del tu, lui che mi insegna come fare. “Si metta davanti allo specchio, e dica a voce alta: Silvio Berlusconi è uno stronzo, Silvio Berlusconi è uno stronzo”. Era davvero convinto che potesse funzionare».
Ci ha mai provato?
«Mai. Quel giorno, nel salutarmi, mi disse: Arrigo chiama quando vuoi, in fondo sei una delle poche persone del mondo intero che non mi hanno mai dato dello stronzo. Non l’ho più fatto, e ancora me ne dispiace. Sentivo che era stanco. Ho voluto molto bene a quell’uomo. Gli devo tutto. A differenza di molte, troppe persone, che oggi fingono di non averlo mai conosciuto, io non me ne dimentico».
Adesso che Berlusconi non c’è più, per chi vota?
«Da molto tempo non nutro più illusioni sulle sorti di questo Paese. Oggi non mi piace nessuno. Sceglierei chi mette al primo posto del suo programma la tutela degli insegnanti e degli operatori sanitari. Scuola e sanità pubblica. Non importa se di destra o di sinistra: conservo dentro di me una vena di sano anarchismo romagnolo».
Un ricordo dei suoi inizi?
«Alfredo Belletti fu il mio mentore. È stato anche autore di una storia di Fusignano, un agile tomo di 1.200 pagine. Gli dicevo che se avesse scritto la storia di Milano, sarebbe venuta fuori la Treccani. Era dirigente della squadra locale, seconda categoria. Fu lui a farmi la proposta. Gli dissi che, come prima cosa, mi serviva un libero, un numero 6. Andò in spogliatoio, ne uscì con una maglia numero 6. “Eccolo qua. Se sei un allenatore decente, te lo costruisci come piace a te, con il lavoro e con le idee”. Una grande lezione».
È per questo che una volta arrivato al Milan disse a Franco Baresi di ispirarsi al compianto Gianluca Signorini?
«Per anni, quella frase fu considerata uno scandalo. Ma non la rinnego affatto. Anche il povero Gianluca aveva fatto un passo alla volta. All’inizio, nel Parma, lo chiamavo “lancetti”, perché faceva sempre lanci lunghi che costringevano me e il magazziniere ad andare per boschi alla ricerca della palla. L’unico vero scandalo è credersi intoccabili, e non capire che si può imparare da chiunque. Sa chi fu il primo che comprese il senso di quel che intendevo? Franco Baresi, il mio capitano. Una persona di straordinaria umiltà, un campione vero».
È stato il calciatore che più ha amato?
«Non mi costringa a fare classifiche, non è giusto. Ho voluto bene a tutti i miei giocatori, nessuno escluso».
Anche a Marco Van Basten?
«Qualche anno fa, le cose che disse in una intervista mi ferirono. Ma non gliene voglio male. Non mi sembra di essere stato duro con lui. Semplicemente, lo trattavo e lo valutavo come gli altri. Forse non gli andava bene questo. Ma non me lo ha mai detto. Tra noi non c’erano problemi».
Insomma. «Arrigo mi ha rotto i cogl...». Era la primavera del 1991. Sentita a Milanello, mentre Marco entrava nella sala del biliardo, con le mie giovani orecchie da praticante giornalista.
(Ride). «Beh, forse qualche tensione c’è stata. Lui era convinto che noi italiani fossimo tutti ignoranti. Una volta gli risposi. Caro Marco, gli dissi, guarda che noi vincevamo i campionati del mondo quando voi olandesi stavate ancora sott’acqua. Lo feci ridere, e ne fui felice. Era una persona e un atleta fragile. Durante una partita di precampionato della nostra prima stagione, gli dissi che non serviva che andasse incontro alla palla a centrocampo. Vacci vicino, senza cercarla, e poi taglia dentro, che così ti picchiano di meno».
Le diede ascolto?
«No, e lo spaccarono. Era un fuoriclasse assoluto, un po’ testardo. Quando ritornò in Italia dal primo infortunio, venne a vedere Milan-Napoli, il famoso 4-1 per noi. Mister, mi disse, non avrei mai creduto che in così poco tempo lei riuscisse a fare un gioco così poco italiano».
Con gli altri due olandesi invece furono rose e fiori fin da subito?
«Pensi che quando andai per la prima volta a vedere Frankie Rijkaard prima di convincere Berlusconi ad acquistarlo al posto dell’argentino Claudio Borghi, operazione che come noto non fu facile, non mi fece una grande impressione. Ma forse quella volta ero stato poco attento».
Arrigo Sacchi che si distrae?
«Avevo già vinto un campionato, ma continuavo a essere un po’ in soggezione dell’ambiente. Mi sembrava ancora tutto più grande di me. Con il direttore sportivo Ariedo Braida, andammo a Rotterdam per una partita della nazionale olandese. Pioveva a dirotto. Lui mi disse, Arrigo vai pure sotto la tettoia, io invece mi metto in prima fila. Sono proprio gentili, pensai. Invece Ariedo, che è uno straordinario uomo di calcio ma anche un bon vivant, non lo aveva fatto per la mia salute. “Ti metti lì, e prendi nota di tutte le belle ragazze in tribuna. Poi all’intervallo me le indichi, che le voglio vedere”. E da buon soldato, invece delle mosse di Rijkaard, segnai sul taccuino il posto dove sedevano le donne più attraenti. Per fortuna, ci furono altre occasioni».
È giusto considerare Ruud Gullit il simbolo di quella squadra?
«Ruud è forse la persona che più di tutte ha capito e accettato l’ossessione che mi ha sempre divorato. Per il calcio, si intende».
Cosa rese quel Milan la squadra italiana più forte di sempre?
«Aggredivamo, e costruivamo. In un Paese dove in qualunque campo si tende a vivacchiare, noi eravamo l’eccezione».
Perché l’Italia le piace così poco?
«Rimaniamo sul calcio, in fondo siete voi giornalisti che ogni due per tre lo definite come una metafora della vita. Siamo un Paese che si illude di essere grande, nel suo intimo consapevole però di contare poco o nulla. Vedo commentatori, ex giocatori ed ex allenatori che in televisione sostengono che tutto è eccezionale, fantastico, ma poi a microfono spento sostengono l’opposto».
Oggi lei come guarda le partite?
«Con l’audio a zero. Il nostro declino nasce dalla propensione ad accontentarci del risultato raggiunto con il minimo sforzo, senza guardare mai alla partita, al domani, a quel che poi resterà. Dovremmo sforzarci di pensare in modo collettivo e propositivo. Invece aspettiamo gli eventi e gli avversari, seguendo la nostra indole eterna, poi cerchiamo di uccellarli, come diceva sempre un suo collega».
Suvvia, Arrigo. Quel giornalista aveva un nome e un cognome, che lei ricorda bene. Si chiamava Gianni Brera, uno dei più grandi di sempre.
«D’accordo, era lui. Ero al secondo anno di Milan. Un giovedì prima di una partita con il Napoli vado a cena con mia moglie al ristorante Riccione, senza immaginare che quello era il giorno in cui si trovava con i suoi amici. Me li manda uno ad uno al nostro tavolo. Mi fanno tutti la stessa domanda. Domenica chi marca Maradona? E mi fanno dei nomi, Tassotti, Maldini, Baresi. “In qualche modo, ci avete preso tutti” rispondo. Quando l’ultimo si è allontanato, la mia Giovanna, che non è mai venuta a vedere una nostra partita mi chiede: “Scusa ma questi non lo sanno che tu giochi a zona?”».
Quale fu la sua risposta?
«Che lo sapevano bene, ma avendo paura di tutto quello che era una novità, rifiutavano l’idea. Pur di non riconoscere qualcosa di diverso dalle loro convinzioni, sostenevano l’insostenibile. Brera era un grande scrittore, ma avevamo due idee di calcio e di Italia incompatibili tra loro. Non a caso, erano i giornalisti all’epoca più giovani che capivano bene ciò che stavo cercando di fare».
Non che lei sia ricordato come un modello di flessibilità...
«Ho sempre cercato di essere me stesso e non ho mai piegato le mie idee alla volubilità della sorte o della convenienza».
Avrà pur commesso qualche errore?
«Ho preso molti abbagli, come tutti. Da giovane, non mi chieda perché, non lo so neppure io, ma detestavo Giacinto Facchetti, inteso come calciatore. Poi mi resi conto che invece era il prototipo del giocatore moderno. Un difensore che attaccava, il primo in Italia. Anche una gran persona perbene».
L’unica volta che l’hanno vista piangere è stato dopo la finale di Usa ’94 persa ai rigori. Conferma?
«Smentisco. La mia cultura mi fa valutare nel giusto modo anche un secondo posto. Quella nazionale fu una squadra eroica. Tutti diedero quel che potevano dare. Il giovedì e il venerdì prima della finale, non li feci allenare. Erano distrutti dal clima infame. La nostra politica, sportiva e non solo, aveva fatto pressioni sulla Fifa per farci giocare sulla costa Est degli Stati Uniti, dove c’erano un caldo e una umidità bestiali, perché là si trovavano le comunità italiane più numerose. Comunque, il Brasile giocò meglio di noi. E sul podio, ero sereno. Senza lacrime».
Nel libro ci sono contributi di allenatori a lei affini, come Guardiola e Ancelotti. Mi stupisce la presenza di Antonio Conte.
«Ne ho stima. Vero, non gioca il mio calcio ideale. Ma riconosco in lui la mia stessa intensità, la stessa passione che mi animava. Ha il fuoco dentro. Gli auguro di non bruciarsi, di gestire i propri demoni interiori meglio di quanto sono riuscito a fare io».
Perché il suo giudizio su Leao è così severo?
«Non sopporto chi non sfrutta appieno il proprio talento. Quel ragazzo ha qualità evidenti, ma sta raccogliendo meno di quanto potrebbe. Nel calcio, la testa va allenata non solo per colpire la palla».
Quanto conta l’ambiente giusto per un allenatore?
«Moltissimo. Quando Maurizio Sarri andò alla Juventus, gli dissi che si stava suicidando. Non era la sua cultura, non era il suo mondo».
E per un giocatore?
«Altrettanto. Nel 2009, Guardiola mi telefonò. Cosa ne pensi se porto Ibrahimovic a Barcellona? Gli dissi che il calciatore non si discuteva, un fenomeno. Ma era anche un maschio alfa, un uomo dalla personalità dirompente, che calato in una squadra di bravi ragazzi cresciuti in casa avrebbe fatto fatica a integrarsi».
Quali sono i tecnici italiani che più stima?
«Apprezzo molto Sarri. Scorbutico e scontroso fin che si vuole, ma bravissimo. Poi, Gian Piero Gasperini, uno che ha coraggio e pensa anche lui al collettivo e non ai singoli. Ma la cosa bella è che ce ne sono tanti, anche meno celebrati. Aurelio Andreazzoli dell’Empoli e Vincenzo Italiano della Fiorentina, ad esempio».
Menzione speciale?
«Qualche anno fa, proprio dove lei siede ora, c’era un ragazzo che mi portò le videocassette del Foggia, la squadra che allenava in serie C. La sera dopo, chiamai il mio amico Giorgio Squinzi, patron del Sassuolo. Ti ho trovato il tecnico che cercavi, gli dissi. Roberto De Zerbi sta diventando sempre più bravo».
Si sente in colpa per avere rovinato l’epica del numero 10?
«Anche questa critica, che mi viene rivolta spesso, rientra nella contrapposizione collettivo-singoli. A volte ci si dimentica che a calcio si gioca in undici».
Cosa pensa della crisi del suo Milan?
«Mandare via Paolo Maldini è stato un atto contro natura. Prendere 6-7 nuovi stranieri in una sola volta invece è un azzardo, soprattutto in una squadra con pochi italiani. Hanno bisogno di tempo per inserirsi, e per capire».
Come vuole essere ricordato Arrigo Sacchi?
«Come una persona schietta che si è impegnata molto per migliorarsi e per migliorare gli altri».