il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2023
Le follie dietro al canestro
La storia dei New York Knicks, ricca franchigia Nba, è una vicenda di sconfitte, sudore, sangue e lacrime. Dunque è giusto che inizi almeno con una separazione. Il 18 giugno 1985, l’allora giovane e promettente regista afroamericano Spike Lee, grande tifoso dei blu-arancio, viene mollato dalla fidanzata. L’attrice Cheryl Burr lo vede incollato alla tv di casa sua che trasmette il draft Nba. Il draft è la scelta dei migliori prospetti da portare ogni anno nella lega di basket più ricca del mondo. “È finita!”, dice lei all’uomo incurante inchiodato allo schermo. Il momento è poco opportuno, si dirà. Poiché nel primo draft “a lotteria”, New York ha ottenuto la prima scelta e potrà quindi prendere il giocatore da tutti ritenuto il migliore del lotto per quell’anno, quel Patrick Ewing da Georgetown, 2 metri e 13, origini giamaicane, fama di grande difensore, paragonato addirittura a Lew Alcindor che conquistò l’Nba col nome di Kareem Abdul-Jabbar.
Nella sua biografia, Lee racconta così il suo ritorno a casa quella sera. “Esaminai i miei sbagli. Mi morsi le labbra. Presi la cornetta. Feci il numero. Misi da parte l’orgoglio. Era ora di impegnarsi”. Chiamò la sede dei Knicks: aveva deciso di abbonarsi.
Abbonarsi ai Knicks, allora come ora, era una scelta fideistica. La franchigia era stata ad alti livelli solo all’inizio degli anni 70, quando aveva vinto due titoli. Nel volgere di un decennio però la squadra era deragliata: problemi di droga, scarso impegno degli atleti e addirittura nell’82 un’indagine dell’Fbi su presunte combine per conto di uno spacciatore che puntava forte sui loro avversari.
Apprendiamo queste notizie da Chris Herring, firma di Sport Illustrated, che l’anno scorso è stato un piccolo caso editoriale in America col suo Sangue al Garden (fresco di stampa in Italia, tradotto da Lorenzo Vetta per 66thand2nd), best-seller consigliato anche da Obama. Attraverso oltre 200 interviste a giocatori, allenatori, dirigenti, preparatori, giornalisti, tifosi, Herring ricostruisce nel dettaglio l’ultimo tentativo credibile, tra la fine degli anni 80 e tutti gli anni 90, in cui New York aveva le carte per vincere un titolo. E, ovviamente, giunta vicinissima a farlo, non lo fece.
La squadra che Pat Riley prese in mano nel ’91, non era come gli spettacolari Lakers dello Showtime con Magic e Kareem che l’iconico mister griffato aveva portato al titolo più volte. Era piuttosto “piena di bufali” per dirla con Ed Tapscott, direttore amministrativo di NY. Oltre a Pat Ewing e John Starks, che vedevano anche il canestro in attacco, gli altri due piloni della squadra erano Charles Oakley, un armadio di 206 cm per 111 kg, gran difensore, per anni in vetta alla classifica dei “flagrant” (i falli violenti, che poi la Lega decise di normare meglio anche a causa sua) e Anthony Mason, un omone tutto muscoli con una rabbia agonistica così spiccata che una volta a fine partita irruppe nella stanza del coach (che all’epoca era Don Nelson) dopo una sconfitta e vergò su un foglio di carta: “Se mi levi dal cazzo di campo un’altra volta, ti uccido”. Don Nelson (che neanche l’aveva sostituito quel giorno) collegò anni dopo questi scatti improvvisi all’uso di steroidi, ma la vicenda galleggia tra le pagine come una semplice dichiarazione senza prove (Mason morirà per un attacco di cuore a 48 anni).
Fatto sta che quella squadra, che oggi è proprietà di Jim Dolan (altro eclettico prodotto della Grande Mela, un’adolescenza di dipendenza da alcol e droghe e una ricchezza stimata attorno ai 5,6 miliardi di dollari, figlio di Chuck che cablò la metropoli e fondò la Hbo), inizia a vincere molte partite in stagione. Il fato vuole però che l’intera vicenda si inscriva tra l’esplosione di Michael Jordan a Chicago e il decennio segnato da Tim Duncan a San Antonio e dal duo O’Neal-Bryant a Los Angeles.
Eppure quei Knicks ci andarono vicini. Il 2 giugno 1993, al Garden, va in scena la gara 5 delle finali di Conference (i play-off Nba sono al meglio delle 7 partite): la serie tra NY e Bulls è sul 2-2, chi passa va in finale per il titolo. Charles Smith ha la palla per portare New York sul 3 a 2. Mancano 12 secondi alla fine e lui ha il pallone in mano a 60 cm dal canestro, dentro il pitturato. Tutti i tifosi di NY ricordano quella scena: bastava schiacciarla. In 7 secondi, invece, Smith riesce a essere stoppato in sequenza da Horace Grant, Jordan e Pippen (2 volte), un record irraggiungibile. E dopo quel disastro, che lanciò Jordan in finale e al terzo titolo consecutivo, spente le luci del Garden e avviatosi a casa col morale sotto i tacchi, il suo compagno di squadra Doc Rivers ricorda di aver visto Smith fermato pure dalla polizia. Giornataccia.
Ci andarono ancora più vicini l’anno dopo, l’anno in cui MJ si ritirò temporaneamente dal basket (con gran disperazione dell’Nba, che aveva legato nome e vendite al marchio MJ) e i Knikcs a Est ebbero la meglio sui resti dei Bulls. In finale c’erano gli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon. Li portarono a gara 7. La maledizione di Smith colpì quel giorno Starks. Il cecchino che quell’anno viaggiava con una media punti di 34,9, che tirava col 42 per cento dal campo e col 33,5 da 3, portò a casa la più sconfortante performance della sua vita segnando 2 tiri su 18 (zero su 11 da 3). Addio anello.
Il resto furono botte: nei play-off del ’98 con Miami l’allenatore Jeff Van Gundy, entrato in campo per sedare una rissa tra Larry Johnson e Alonzo Mourning, finì aggrappato malamente alla coscia di quest’ultimo che lo trascinò per il campo. L’anello manca dal 1973, il tifoso Spike Lee ha rinnovato l’abbonamento.