Corriere della Sera, 7 novembre 2023
Oriana Fallaci intervista Ariel Sharon
Pubblichiamo l’intervista che Oriana Fallaci fece all’allora generale israeliano Ariel Sharon a Tel Aviv, nel settembre 1982. L’intervista, contenuta nel libro «Intervista con il potere», testimonia da un lato la somiglianza tra alcune situazioni di 41 anni fa e quelle che si stanno riproponendo in queste drammatiche settimane; dall’altro, il suo incessante lavoro alla ricerca della verità – senza pregiudizi né affiliazioni. Fallaci non è mai stata tenera con Sharon, che in una conferenza tenuta nel settembre 1982 all’Università’ di Harvard definì molto orgoglioso del suo esercito: quasi nella misura in cui lo è di sé stesso», ma soprattutto «uno che mente sempre, come Shimon Peres gli ha gridato in Parlamento». Quando nel 1970 la giornalista arrivò di notte in Medio Oriente, nella valle del Giordano, con il suo fotografo Moroldo dopo l’esperienza da inviata in Vietnam, questi pensieri rimuginava tra sé e sé, come si trova nella prefazione di Lucia Annunziata al libro «Le radici dell’odio»: «Qui si riassume così: da una parte ci sono gli arabi e dall’altra gli ebrei, sia gli uni che i secondi combattono per non finire. Se vincono gli arabi sono finiti gli ebrei; se vincono gli ebrei, sono finiti gli arabi. Dunque chi ha ragione, chi ha torto, chi scegli?». Una domanda attualissima, parole che potrebbero essere scritte oggi. Ma l’Oriana Fallaci che arriva in Medio Oriente da ammiratrice di Israele, già alle prime luci dell’alba di quella notte nella valle del Giordano si dà una risposta: «Gli ebrei li conosci. Perché hai sofferto per loro, con loro, fin da bambina, li hai visti braccare arrestare massacrare (…) Gli arabi non li conosci. Non hai mai sofferto con loro, non hai mai pianto per loro, non sono mai stati un problema per te (…) Però un giorno è successo qualcosa. Hai letto che centinaia e centinaia di migliaia di creature, di palestinesi, erano fuggiti o erano stati cacciati (…) ammassati come le pecore nei campi-profughi (…) sradicati, umiliati, spogliati d’ogni possesso e d’ogni diritto: i nuovi ebrei della Terra».
ORIANA FALLACI. La prima parte della guerra, anzi della sua guerra, generale Sharon, è finita. I palestinesi di Arafat se ne vanno da Beirut. Però se ne vanno a testa alta, dopo aver resistito quasi due mesi e mezzo al potente esercito israeliano, e circondati da una simpatia che prima non esisteva o esisteva soltanto in parte. Pur non dimenticando che erano stati loro a invadere per primi il Libano e agirvi da padroni, ora tutti sono concordi nel riconoscere che questo popolo deve avere una casa, una patria, e non a torto Arafat parla di vittoria politica. Non a torto molti sostengono che, politicamente, lei gli ha fatto un regalo. È questo che voleva?
ARIEL SHARON Io volevo che se ne andassero da Beirut, dal Libano, e ciò che volevo l’ho ottenuto in pieno. Arafat dica quel che gli pare: non conta. Sono i fatti che contano, e gli sviluppi, le conseguenze che tali fatti avranno in futuro. Forse lui crede sul serio d’aver vinto politicamente, ma il tempo gli dimostrerà che la sua sconfitta è soprattutto politica. Politica, non militare. Militarmente, sa... se io dovessi analizzare questa guerra per conto di Arafat, non la giudicherei una sconfitta militare. L’esercito israeliano è davvero potente, i terroristi dell’OLP non erano che diecimila, siriani compresi, e contro quei diecimila abbiamo scatenato una pressione notevole. Politicamente, invece, la sua sconfitta è completa. Assoluta, completa. E le spiego perché. La forza dell’OLP consisteva nell’essere un centro internazionale del terrorismo, e tale centro poteva esistere soltanto disponendo d’un paese dentro cui installare uno Stato nello Stato. Questo paese era il Libano. Dal Libano partivano per agire in ogni parte del mondo, in Libano avevano il loro quartier generale militare e politico. Ma ora che si sparpagliano in otto paesi lontani l’uno dall’altro, dall’Algeria allo Yemen, dall’Iraq al Sudan, non hanno nessuna speranza di rifare quel che facevano. Nessuna. Ci accingiamo a vedere una situazione del tutto nuova in Medio Oriente, qualcosa che ci consentirà di arrivare a una coesistenza pacifica coi palestinesi. L’altra sera mi ha telefonato Henry Kissinger, e mi ha detto che un’era nuova sta incominciando in questa regione: nuove possibilità stanno aprendosi per la soluzione del problema palestinese. Israele, mi ha detto, avrà dai dodici ai diciotto mesi di tempo per trovare quella soluzione prima che l’OLP si riprenda.
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Dunque anche Kissinger ritiene che l’OLP non sia annientata. Non lo è. E in compenso Arafat ha avuto la sua piccola Stalingrado, è riuscito a commuovere il mondo nella stessa misura in cui lei è riuscito a indignarlo mettendo a ferro e fuoco una città che ora non esiste più, i rapporti tra Israele e gli americani si sono guastati... Avrà vinto lei, generale Sharon, ma a me sembra proprio la vittoria di Pirro.
Si sbaglia. Da un’inchiesta recente risulta che le simpatie per Israele sono aumentate. E va da sé che la cosa non è importante perché, sebbene la simpatia del mondo ci interessi, quando si tratta della nostra sicurezza e della nostra esistenza possiamo farne benissimo a meno. Quanto ai rapporti tra Israele e gli americani, non si sono guastati. Sì, con gli americani abbiamo avuto scontri molto duri, discussioni molto amare. Gli americani ci hanno imposto anche molte pressioni psicologiche, e prima che incominciasse la guerra non riuscivo a stabilire con loro un interesse comune, uno scopo comune. Ora invece condividono i nostri obiettivi, concordano sui nostri programmi, e comunque sa cosa le dico? Preferisco subire quelle pressioni, quelle discussioni, quegli scontri, piuttosto che evacuare con l’elicottero dal tetto dell’ambasciata americana a Saigon. La ritirata degli americani da Saigon fu un oltraggio, e quell’oltraggio io non l’ho sofferto. L’ho fatto soffrire agli altri.
Non mi sembra esatto, generale Sharon. La partenza dell’OLP da Beirut è stata piuttosto dignitosa, fin oggi. Lacrime, sì, sciocche sparatorie, sì, ma in sostanza era un esercito che partiva: con le sue uniformi, i suoi Kalashnikov, le sue bandiere. Perché è così spietato, generale Sharon? Era dunque solo disprezzo quello che sentiva mentre dall’alto della collina di Bab’da li guardava col suo potente canocchiale?
No, sentivo quel che dice la Bibbia: «Non gioire quando il nemico cade». Perché anche se erano killer, e lo sono, anche se erano assassini, e lo sono, anche se erano stupratori, e lo sono, anche se erano sanguinari terroristi e... No, non mi interrompa! Mi lasci rispondere a modo mio! Anche se erano sanguinari terroristi, dicevo, e lo sono, si trattava di esseri umani. E non gioivo. Quanto allo spettacolo che hanno messo insieme recitando la commedia della vittoria, sapevamo benissimo che sarebbe successo. C’erano i nostri servizi di informazione a Beirut Ovest, e conoscevamo i loro preparativi. Sapevamo che avevano ricevuto ordini severissimi sul modo di comportarsi dinanzi ai giornalisti e alla Tv, che a ciascuno era stata data una uniforme nuova o pulita... Gli era stato perfino raccomandato di esibire il fucile, visto che Begin non si era opposto al fatto che si portassero via i fucili... Però è inutile che lei continui a usare la parola partenza. Non è stata una partenza. Non è stata nemmeno una ritirata, nemmeno una evacuazione. È stata una espulsione. I terroristi dell’OLP avrebbero potuto parlare di evacuazione se noi avessimo accettato ciò che pretendevano: ad esempio che lasciassimo Beirut. Invece hanno dovuto piegarsi a ciò che esigevamo, inclusa la nostra presenza, e la loro è una cacciata. Una espulsione.
Se vuole. Ma prima di andare avanti, devo fare una parentesi. Perché li chiama terroristi? Terrorista è colui che distribuisce terrore tra gli inermi e gli indifesi, uccidendo un cittadino che cammina per strada ad esempio, o facendo saltare in aria un’automobile, un treno, un edificio. E non v’è dubbio che di queste carognate, di queste porcherie, l’OLP ne abbia commesse in abbondanza. Anni fa lo dissi, nella mia intervista, ad Arafat e Habbash. Però a Beirut non facevano i terroristi. A Beirut erano soldati che vi affrontavano da soldati: artiglieria contro artiglieria, mitragliatrici contro mitragliatrici.
Lei mi ricorda Habib che, ogniqualvolta pronunciava o leggeva la parola «combatants», combattenti, mi lanciava un’occhiata e frenava un sorriso. Perché conosceva la mia reazione. Combattenti, soldati? Nossignora, quelli non erano combattenti e soldati. Neanche a Beirut. Chi entra nella sala chirurgica di un ospedale dove i medici stanno operando un ferito e disconnettendo i tubi dell’ossigeno ordina di buttar via il ferito, sostituirlo con quello che portano loro, non è un soldato. È un terrorista, un assassino. Chi confisca un convoglio della Croce Rossa e ruba il latte in polvere destinato ai bambini, sghignazzando, non è un soldato. È un terrorista, un ladro. Ecco come si comportava la marmaglia di Arafat a Beirut. I siriani non si comportano a quel modo, i giordani non si comportano a quel modo, gli egiziani non si comportano a quel modo. Gli uomini di Arafat sì. Sempre, da sempre. Ai confini tra Libano e Israele avevamo decine di installazioni militari. Eppure non le attaccavano mai. Mai! Attaccavano sempre i kibbutz, uccidevano sempre la gente inerme, i bambini, i vecchi, le donne. Non sono un esercito. Sono una banda di vigliacchi, di terroristi. Mi chieda tutto ma non mi chieda di chiamarli soldati.
Il fatto è che lei usa la parola terrorista come un insulto. E a ragione. Ma voi che altro eravate quando vi battevate contro gli arabi e gli inglesi per fondare Israele? L’Irgun, la Stern, l’Haganà non erano forse organizzazioni terroristiche? La bomba con cui Begin uccise settantanove persone al King David Hotel di Gerusalemme non era forse un’azione terroristica? Lo ammette anche lui. Tempo fa, a New York, durante una colazione in suo onore, incominciò il suo discorso dicendo: «Sono un ex terrorista».
L’organizzazione diretta dal signor Begin non attaccava i civili. E il signor Begin faceva un punto d’onore nel raccomandare ai suoi uomini di non colpire i civili. La bomba al King David Hotel era diretta contro i militari inglesi e la colpa di quell’episodio ricade tutta sullo High Commissioner inglese che era stato avvertito mezz’ora prima ma invece di evacuare l’albergo scappò. Noi non eravamo terroristi, eravamo dei «Freedom Fighters», combattenti per la libertà. Noi ci battevamo contro l’occupazione inglese.
Anche gli uomini di Arafat si definiscono «Freedom Fighters», combattenti per la libertà, e sostengono di battersi con tro l’occupazione israeliana. Parentesi chiusa. Ora mi dica, generale Sharon: non le dispiace di non essere entrato a Beirut e di non averli fatti fuori tutti, ammazzati tutti, questi suoi nemici? Anche come generale, non si sente derubato di qualcosa, insoddisfatto?
Senta, non è più un segreto che lo scorso gennaio, per l’esattezza il 18 gennaio, andai clandestinamente a Beirut per studiare la situazione. Io faccio sempre così, mi preparo, perché detesto le improvvisazioni. Un viaggio assai avventuroso, peraltro, sia all’andata che al ritorno... Andai, vi rimasi due giorni e una notte, girai per la città spingendomi fino al porto dove parlai con la gente, e poi dall’alto del grattacielo che divide la sezione mussulmana da quella cristiana osservai bene la città. V’era qualcuno con me, e a questo qualcuno dissi subito ciò che avrei detto al primo ministro Begin rientrando a Gerusalemme: «Se o quando dovremo andare in Libano, vorrei evitare di entrare a Beirut». Sa perché? Perché, anche occupata dai siriani, anche invasa dai terroristi, Beirut restava la capitale. Una capitale abitata da centinaia di migliaia di civili. Miss Fallaci, affermo di non aver mai voluto entrare a Beirut. Affermo di avere sempre pensato che non bisognava entrare a Beirut se non in caso di assoluta necessità. E mi ascolti bene: se fossi stato davvero convinto che bisognava entrare a Beirut, nessuno mi avrebbe fermato. Democrazia o no, ci sarei entrato anche se il mio governo l’avesse vista diversamente. Li avrei persuasi che dovevo farlo e lo avrei fatto.
Se è così, perché ci ha provato tanto? Durante l’ultima parte dell’assedio ero a Beirut, generale Sharon. Ci ero andata proprio per vedere, preparare questa intervista. E, come tutti, posso testimoniare che ogni giorno lei ci provava. Ogni giorno c’era battaglia al museo, all’ippodromo, nella foresta dei pini. Per andare da Beirut Est a Beirut Ovest, l’ho attraversata quella foresta dei pini dove israeliani e palestinesi si guardavano praticamente in faccia, e ho guardato bene. Perbacco, vi battevate per il possesso di cento metri, cinquanta metri. Venticinque! E non riuscivate ad avanzare.
Miss Fallaci... mi creda. Militarmente potevamo entrare in qualsiasi momento. Nell’eventualità che la cosa si rendesse necessaria, avevamo fatto tutti i preparativi per entrarci. Non dimentichi che abbiamo uno degli eserciti migliori del mondo, che da trentacinque anni non facciamo che combattere, che siamo stati in guerra con tutti i paesi arabi, che abbiamo moltissima esperienza.
Ma, forse, non l’esperienza del combattimento in città, casa per casa. Generale Sharon, mi sbaglio o una delle ragioni per cui non siete entrati a Beirut Ovest era che quel tipo di combattimento vi sarebbe costato troppi soldati: almeno mille?
La guardo negli occhi e le rispondo no, no, no. Anzitutto non avremmo avuto i morti che lei dice. Neanche una cifra paragonabile a quella che lei cita. Ce la saremmo cavata con alcune dozzine di soldati morti nei combattimenti casa per casa: questo è ciò che anche il capo di Stato Maggiore disse al primo ministro Begin. Poi ci siamo fermati tutte quelle settimane perché sapevamo che l’OLP aveva capito di non potercela fare e avrebbe finito con l’andarsene. Miss Fallaci, Beirut non è Stalingrado e l’OLP non è l’Armata rossa: mettiamo le cose nelle giuste proporzioni. Poco fa lei ha parlato di una piccola Stalingrado. Ma c’era lei a Stalingrado?
Io no, e lei?
Neanche io. Però so tutto di Stalingrado, ho letto tutto su Stalingrado, e le dico che nemmeno a far le debite proporzioni si può paragonare Beirut a Stalingrado. Anzitutto a Stalingrado la popolazione e l’Armata rossa combattevano spalla a spalla contro i tedeschi. A Beirut invece la popolazione era tenuta in ostaggio dai terroristi. Poi a Stalingrado l’Armata rossa e la popolazione combatterono eroicamente, fino alla morte. I terroristi di Arafat invece hanno combattuto quel poco che bastava per dare l’impressione di combattere. Non hanno mai combattuto fino in fondo. Mai! Spesso non hanno combattuto per niente. Infatti abbiamo impiegato appena quattro giorni per arrivare dal confine ai sobborghi di Beirut. Hanno combattuto pochissimo anche all’aeroporto e nei campi. È sorprendente il numero esiguo di perdite umane che abbiamo avuto occupando il campo di Ouzai, il campo di Bouj Barajne, il campo di Hagshalum. E anche per questo io non li rispetto, non rispetto Arafat. Rispetto gli egiziani per come si sono battuti in tutte le guerre contro di noi, rispetto i giordani per come si sono battuti nel 1967 a Gerusalemme, rispetto i siriani per come si sono battuti in molte occasioni e anche in questa. Ma non rispetto i terroristi di Arafat perché non si sono battuti in Libano e a Beirut. E le ripeto che, se fosse stato per loro, avremmo potuto entrare comodamente a Beirut.
Ma non ci siete entrati. E se il motivo non è quello che ho detto, dev’essere un altro. Mi sbaglio o quest’altro motivo potrebbe chiamarsi presidente Reagan, americani? Mi sbaglio o il presidente Reagan, gli americani, non volevano che entraste? Mi sbaglio o non potevate ignorare l’ira e la condanna dei vostri protettori e alleati? Gli americani erano arrabbiati fin dall’inizio, si sa. Basti pensare alla freddezza con cui Reagan accolse Begin che aveva imposto la sua visita a Washington.
Anzitutto Begin non impose affatto la sua presenza a Washington. Lei non conosce Begin. Poi per fare questa guerra non avevamo bisogno del permesso di nessuno, inclusi gli americani. Abbiamo mai chiesto il loro permesso per fare ciò che abbiamo fatto in questi trentacinque anni? Abbiamo forse chiesto la loro autorizzazione per annunciare lo Stato di Israele, per dichiarare Gerusalemme capitale di Israele, per portare il governo e il Parlamento a Gerusalemme, per passare il canale di Suez nel 1973, per fare il raid di Entebbe, per bombardare il reattore nucleare iracheno? Siamo uno Stato indipendente, prendiamo le nostre decisioni liberamente e di nostra spontanea volontà. Infine abbiamo alleati, non protettori. Non ci servono i protettori. Così non dico che si possa ignorare l’opinione dei nostri alleati, però dichiaro che non prendiamo ordini da nessuno. Il motivo per cui non sono entrato a Beirut è quello che ho detto prima. In parole semplici, non volevo colpire la popolazione civile.
Ah, no, generale Sharon! No! Che razza di storia è questa? Per settimane lei l’ha bombardata in modo feroce quella popolazione civile. Feroce! Posso dirglielo io che ho seguito quasi tutte le guerre del nostro tempo e per otto anni quella in Vietnam. Neanche a Hué, neanche a Hanoi ho visto bombardamenti feroci come quelli di Beirut. E ora vuol darmi a bere che non è entrato a Beirut per risparmiare a quella povera gente qualche fucilata in più?
Lei è dura, troppo dura. Sì, lo so che c’era e che ha visto. Però so anche che non abbiamo mai bombardato intenzionalmente la popolazione civile. Non abbiamo mai bombardato per colpire la popolazione civile. Mai! La maggior parte dei bombardamenti, e dico la maggior parte perché la guerra è guerra, sono avvenuti nelle zone dove i terroristi avevano le loro basi e i loro quartieri generali, cioè a sud del Boulevard di Mazra, nell’area di Fakhani. Parlo di Sabra, Chatila, Ouzai, Bouj Barajne...
Ora Coventry, Berlino 1945. Ma non bombardavate solo laggiù, bombardavate anche il centro. Le case, gli ospedali, gli uffici dei giornali, gli alberghi, le ambasciate. Lo chieda a chi era dentro. Lo chieda ai giornalisti che stavano all’hotel Commodore.
Noi non bombardavamo quei luoghi, bombardavamo le postazioni militari installate accanto a quei luoghi. Bombardavamo gli obiettivi militari che i terroristi mantenevano criminalmente nel centro della città riparandosi dietro la popolazione, tenendo in ostaggio la popolazione! Osservi queste fotografie scattate dai nostri aerei. Guardi qui: a centoventi metri dall’ambasciata del Vaticano, una batteria di mortai da 82 mm. A quindici metri dall’ambasciata d’Egitto, un’altra batteria identica. A trecento metri dall’ambasciata sovietica, buona parte dell’artiglieria pesante e dell’artiglieria a media gittata. A poche decine di metri dalle ambasciate del Giappone e del Cile, altra artiglieria a lunga e media gittata. Accanto all’ambasciata di Spagna, un cannone da 130 mm. Intorno all’ambasciata americana, carri armati. Crede davvero che volessimo colpire le ambasciate del Vaticano, dell’Egitto, dell’Unione Sovietica, del Giappone, del Cile, della Spagna, degli Stati Uniti? E ora guardi dove sono i loro carri armati: qui, qui, qui, qui, qui...
D’accordo. Potrei replicare che, negli ultimi giorni, a Beirut Est, anche voi tenevate i carri armati a pochi metri dall’hotel Alexandre e dall’ospedale Hotel Dieu. Sicché ogni notte e ogni mattina era una pioggia di Katjusce palestinesi, un inferno. Ma preferisco dirle: d’accordo, in quello ha ragione. In alcuni casi l’OLP ha fatto di peggio: ha messo l’antiaerea sul tetto di un ospedale. Ma il punto non è questo. È l’esagerazione, la sproporzione, la ferocia, ripeto, dei vostri bombardamenti. Ogniqualvolta volava una mosca su Beirut, rispondevate con tonnellate di fuoco. Se non fosse così, come spiegherebbe l’indignazione dello stesso presidente Reagan?
Con l’esagerazione con cui lei mi descrive la nostra esagerazione. La stessa esagerazione, o inaccuratezza, che è stata comunicata a Reagan. Sì, perché a un certo punto il presidente Reagan disse che il simbolo di questa guerra era una bambina di pochi anni con le braccia amputate. Qualcuno gli aveva messo sulla scrivania la foto di una bambina fasciata come una piccola mummia, sicché sembrava che avesse le braccia amputate, e lui venne fuori con la storia del simbolo. Bè, abbiamo cercato questa bambina e l’abbiamo trovata. Anzitutto non era una bambina, era un bambino. Poi non aveva le braccia amputate, aveva un braccio ferito. Era stato fasciato a quel modo perché...
Generale Sharon, se vogliamo batterci a colpi di fotografia, posso inondarla, soffocarla con fotografie di bambini morti o feriti sotto quei bombardamenti. Ne ho per caso una in borsa che volevo farle vedere, che non ho più voglia di farle vedere, e...
Me la faccia vedere.
No, perché ora non voglio rivederla io. Mi fa male. E mi fa arrabbiare troppo.
Io voglio vederla lo stesso.
Le ho detto no, non è necessario.
Sì, invece. Devo vederla.
E va bene.
(Apro la borsa e ne estraggo una fotografia. Ritrae un gruppo di bambini morti. Età, all’incirca, un anno, tre anni, cinque anni. La cosa più spaventosa però non è che sono morti: è che sono ridotti a pezzi, maciullati. E qua c’è un piedino che manca al cadavere del più piccolo, qua un braccino che manca al cadavere del più grande, là una manina aperta quasi a implorare pietà. Ariel Sharon la prende con mano ferma, decisa, poi la fissa e per una frazione di secondo il suo volto si contrae, i suoi occhi si irrigidiscono. Subito dopo si ricompone e mi restituisce la fotografia, un po’ imbarazzato).
Mi dispiace... Mi dispiace molto. Molto... Mi dispiace molto. Mi dispiace tanto che quasi non mi importa dirle: questa fotografia assomiglia a quelle dei nostri bambini ammazzati nei kibbutz dai terroristi di Arafat. E poi a che serve? Da qualsiasi parte della barricata avvenga, ogni morte è una tragedia, e la morte di un bambino è sempre una tragedia intollerabile. Ma lei deve credermi quando ripeto che abbiamo cercato di evitare queste cose il più possibile. Nessuno, nelle ultime guerre, ha mai tentato quanto noi. Né gli americani, né i francesi, né gli inglesi, né i russi, per non dire dei tedeschi. E non starò a ricordarle Hiroshima, cioè il caso di un paese democratico che per finire una guerra non esita a provocare centinaia di migliaia di morti tra la popolazione civile. Ma una cosa è uccidere la popolazione civile di proposito e una cosa è ucciderla senza volerlo. Nella riunione che ebbi coi miei ufficiali il 6 giugno, cioè prima di entrare nel Libano, detti disposizioni precise affinché i civili fossero risparmiati. Due giorni dopo andai al fronte e seppi che la maggior parte delle nostre perdite erano dovute proprio alle mie disposizioni. Così riunii di nuovo i miei ufficiali e dissi: «Le scelte da fare son due, proseguire nello stesso modo o metterci a bombardare». Il dibattito durò da mezzanotte all’alba, drammaticamente, e si concluse con una decisione unanime: proseguire come prima. Ai bombardamenti ricorremmo soltanto quando compresi che per indurre i terroristi palestinesi a lasciare Beirut bisognava premere in modo massiccio.
Sì, ma allora perché continuò a bombardare anche dopo che avevano annunciato di andarsene? V’erano giorni in cui gli emissari di Habib non potevano passare da est a ovest, e viceversa, per via dei bombardamenti, e lo stesso Habib diceva che era lei a sabotare le trattative: «Tutti i problemi mi vengono da Sharon». E perché, quando l’accordo era stato praticamente raggiunto, l’11 agosto, impose il bombardamento più feroce di tutti, dodici ore ininterrotte, dalla terra, dal cielo, dal mare?
Perché Arafat continuava a fare giochetti, imbrogli. Perché continuava a mentire e a prenderci in giro, quel vigliacco, quel bugiardo. Non ci si può mai fidare di lui, di loro. Vivono sulla furbizia, tradiscono sempre i giuramenti, gli impegni. Anche ora. Prima di imbarcarsi, ad esempio, dovevano dare i nomi. Non li hanno dati. Non dovevano portare a bordo i carri e le jeep. Cercano di portarle. E l’11 agosto esigevano ancora il nostro ritiro da Beirut, la sostituzione delle nostre truppe con quelle delle forze internazionali. Allora li bombardammo, sì. E in che modo... in che modo... Ma funzionò. La notte seguente, cioè la notte tra il 12 e il 13, si piegarono alle nostre condizioni. E io cessai di bombardare.
O cessò di bombardare perché il suo stesso governo glielo impose?
Miss Fallaci, quei bombardamenti non erano iniziativa personale di Sharon: erano decisi e approvati dal governo. Perciò, quando il primo ministro e l’intero gabinetto decisero di cessarli, il governo pose fine a qualcosa che esso stesso aveva voluto, aveva approvato, aveva sottoscritto.
Sta negando che questa guerra sia la sua guerra, la guerra di Ariel Sharon?
Esattamente. Questa guerra non è la mia guerra, è una guerra di Israele.
Però Sharon l’ha concepita, sognata, desiderata, voluta, preparata e condotta in tutti i particolari. Cioè a modo suo. E per condurla a modo suo non s’è curato nemmeno di irritare i suoi alleati. Generale Sharon, come spiega che il nuovo segretario di Stato George Shultz abbia rifiutato in questi giorni di riceverla a Washington e che un suo funzionario abbia detto chiaro e tondo: «La presenza del ministro della Difesa Sharon non è gradita a Washington»?
È corsa questa notizia, sì, ma poche ore dopo il portavoce di Shultz ha aggiunto che non era vero, che il ministro della Difesa Sharon era sempre benvoluto a Washington, che tuttavia era meglio continuare i contatti con Habib a Beirut. Del resto io non ho mai chiesto d’essere invitato a Washington: né da Reagan, né da Weinberger, né da Shultz sebbene desideri moltissimo conoscere Shultz. È vero invece che tale incontro è stato chiesto da Begin, attraverso il nostro ambasciatore in America. Era il primo ministro che voleva mandarmi a Washington: non perché scavalcassi Habib ma perché riteneva utile che dessi personalmente al governo americano alcune informazioni su quel che sta succedendo in questa parte del mondo.
Capisco, e come spiega il fatto che gli americani vi abbiano tenuto il muso per tutta la durata della guerra?
Con la loro paura che il successo dell’impresa andasse perduto. La lunghezza di questa guerra preoccupava molto gli americani. Non volevano capire che andava per le lunghe perché non intendevo entrare a Beirut, e temevano che il tempo sciupasse tutto. Sa, il Libano è una faccenda complicata: in Libano non ci sono soltanto i libanesi e i terroristi dell’OLP. C’entrano anche i siriani, i sovietici... Senza contare voi della stampa e della televisione. Siete diventati una parte decisiva nella valutazione degli avvenimenti e soprattutto delle guerre. Il modo in cui le interpretate, cioè le cose che scrivete e le immagini che mostrate, è spesso determinante. Voglio dire, nei paesi in cui esiste la democrazia, siete voi a creare l’opinione pubblica. Così un presidente democratico deve tener conto dell’opinione pubblica, e se pensa che in America ci saranno le elezioni a novembre... Comunque io non drammatizzerei l’irritazione degli americani. La nostra alleanza con gli americani è basata su interessi reciproci, e gli americani lo sanno. Israele ha contribuito alla sicurezza degli Stati Uniti non meno di quanto gli Stati Uniti hanno contribuito alla sicurezza di Israele, e qualche screzio non cambia nulla.
In altre parole, avete bisogno di loro quanto loro hanno bisogno di voi. Ma quando li informò, esattamente, che stava per invadere il Libano?
A parte il fatto che alla parola invasione preferisco la parola operazione, io non ho mai informato gli americani che avrei invaso il Libano. Non ho mai parlato con loro di piani veri e propri, di date, di orari. Però per quasi un anno, e cioè dal settembre del 1981, ho discusso con loro l’eventualità che l’operazione avvenisse. Ne ho discusso varie volte con l’allora segretario di Stato Alexander Haig quando veniva qui, ne ho discusso col ministro della Difesa Weinberger quando sono andato a Washington in novembre, ne ho discusso ripetutamente con l’ambasciatore Habib... Guardi, Haig e Weinberger e Habib io li vedevo soltanto per discutere il problema del terrorismo, dell’OLP. E, pur guardandomi bene dal fornirgli il mio piano, non ho mai tenuto segreti, alimentato misteri. Al contrario. Poiché il bombardamento della centrale nucleare in Iraq li aveva colti di sorpresa e se n’erano lamentati, «Please don’t catch us by surprise, per favore non prendeteci di sorpresa», parlando del Libano non facevo che ripetergli: «Non ditevi colti dalla sorpresa, se o quando ci decideremo. La situazione è tale che non possiamo frenarci più». Questo soprattutto dopo quello che dicevano i loro diplomatici in Arabia Saudita, cioè il paese che ha sempre sostenuto e finanziato il terrorismo dell’OLP più di qualsiasi altro a parte l’Unione Sovietica. Quei diplomatici dicevano che le attività terroristiche lungo le frontiere con Israele dovevano essere considerate violazioni al cessate il fuoco, ma le altre no. Così andai dall’ambasciatore americano in Israele, gli presentai lo scenario di quel che sarebbe successo e ripetei: «Non sorprendetevi quando succederà».
E che cosa le risposero, come giudicarono il suo «progetto»? Non le dissero: «Con questo progetto lei rischia di far scoppiare la Terza guerra mondiale»? E lei non si è mai chiesto se con questa guerra avrebbe scatenato la Terza guerra mondiale?
Naturalmente avevamo considerato le varie possibilità di un intervento sovietico, anche parlando con gli americani. Sappiamo bene che, se scoppiasse la Terza guerra mondiale, essa non colpirebbe soltanto gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica: travolgerebbe tutti e noi per primi. Ma sa... abbiamo anche noi servizi segreti, e ben funzionanti, oltretutto. Sappiamo anche noi raccogliere notizie, vagliarle, assorbirle. Così avevamo messo insieme molte informazioni, le avevamo esaminate con cura, prudenza, e avevamo concluso che l’Unione Sovietica non avrebbe mosso un dito.
Tuttavia Alexander Haig giudicò l’intera faccenda con l’aggettivo «insane». Folle. Lo ha dichiarato uno dei suoi aiutanti.
Non ricordo questa parola. Folle? No, nessuno mi ha mai detto questa parola. Però erano contro, sì. Assolutamente contro, devo ammetterlo. Pur conoscendo la situazione, la misura in cui essa si deteriorava, non volevano darmi ragione. Continuavano a dire, ricordo, la frase seguente: «Why do you need this war? Perché ha bisogno di questa guerra?». Poi dicevano che, se fosse stato necessario fare qualcosa, questo avrebbe dovuto essere proporzionato all’atto terroristico e niente di più.
Glielo chiedo anch’io, generale Sharon: «Why did you need this war?». Perché aveva bisogno di questa guerra? Dov’era la minaccia impellente, il fatto nuovo che metteva in pericolo la vostra esistenza? Non lo capisce nessuno.
Lei ragiona come Haig quando mi diceva: «Frenatevi, non rispondete alle provocazioni». Oppure: «Dovrebbe trattarsi di una provocazione precisa». Un giorno mi spazientii e chiesi a Haig quello che avevo già chiesto a Habib: «Qual è la provocazione precisa quando si tratta degli ebrei? Un ebreo assassinato nel campo o per strada è una provocazione precisa, sufficiente? Oppure ce ne vogliono due? O tre, o cinque, o dieci? Se uno perde in un attentato le gambe, no, gli occhi, basta o no?». Da anni siamo tormentati, ammazzati. Ciò, per me, è più che sufficiente, è più che preciso.
Generale Sharon, io ho parlato con diversi giovani qui in Israele, ragazzi che venivano da Beirut, e una buona percentuale mi ha detto che questa è una guerra, se non ingiusta, almeno ingiustificata.
Se parlasse con tutti, scoprirebbe che quasi tutti, invece, hanno accettato questa guerra e la trovano più che giustificata.
Possibile: siete diventati così bellicosi. Sempre a parlare di guerra, sempre pronti a fare la guerra, a espandervi. Non siete più la nazione del grande sogno, il paese per cui piangevamo. Siete cambiati, ecco. Uno di quei ragazzi mi ha detto: «Stiamo diventando la Prussia del Medio Oriente».
Non è vero. Abbiamo tante cose da fare, oltre che combattere. Ad esempio sviluppare la nostra educazione, la nostra cultura, la nostra agricoltura, la nostra industria, la nostra scienza. Ad esempio assorbire gli ebrei che arrivano continuamente da più di settanta paesi, fare una nazione con loro. E non partecipiamo a nessuna corsa alle armi: stiamo solo tentando di migliorare le nostre capacità di difesa per essere pronti a reagire quando ce n’è bisogno.
Quel ragazzo ne dubitava. Il suo eroe era il colonnello Gheva, quello che ha rifiutato di comandare i suoi uomini nell’assedio di Beirut.
Povero Eli, lo conosco bene. Lo conosco da quand’era bambino e mi dispiace per lui. Non voleva entrare a Beirut. Bè, ha perduto il comando della sua brigata, ha perduto una brillante carriera nell’esercito, e non siamo entrati a Beirut. Un eroe? Non direi proprio: per colpa sua la guerra è durata più a lungo e abbiamo avuto più perdite. Tutto quel parlare di lui... tutte quelle manifestazioni pacifiste che a causa di lui l’opposizione inscenò... Per un po’ la cosa ridette forza ai terroristi. E non servì a nulla che gli dicessi: «Eli, Eli, è una questione morale! Le tue truppe sono in combattimento, migliaia di soldati credono in te! Ti rendi conto di quel che stai facendo, Eli? Senza volerlo aiuti il nemico!». Glielo disse anche il primo ministro, glielo disse anche il capo di Stato Maggiore. Perché questa è davvero una democrazia, perbacco! Una democrazia così democrazia che più democrazia di così non si può. In quale altro esercito si sarebbe reagito così?!? Ma non ci fu nulla da fare. Ripeteva che non voleva entrare a Beirut, che ciò avrebbe ucciso troppe persone da una parte e dall’altra. La cosa straordinaria è che nei primi giorni della guerra brontolava perché non bombardavamo abbastanza. Voleva più bombe, più artiglieria, più fuoco...
Oddio! Sta dicendo che aveva ragione Sadat quando affermava che in Israele non esistono falchi e colombe ma falchi e superfalchi?
Quando si tratta della nostra sicurezza siamo uniti, non c’è dubbio. Non ci sono né falchi né colombe ma ebrei. Né Partito laburista né Partito Likud ma ebrei. Ecco la mia risposta.
Generale Sharon, a volte nasce il sospetto che anziché di sicurezza, difesa, si tratti di ambizioni molto ambiziose. Dico così pensando al discorso che lei scrisse per la conferenza dell’Institute of Strategic Studies tenuta nel dicembre scorso a Tel Aviv. E in questo discorso, partendo dal problema dell’espansionismo sovietico e descrivendo la sfera degli interessi strategici israeliani, lei dice che tali interessi non «si limitano ai paesi arabi del Medio Oriente, al Mediterraneo, al Mar Rosso. Sicché, per ragioni di sicurezza, negli anni Ottanta essi devono allargarsi e includere paesi come la Turchia, l’Iran, il Pakistan, nonché regioni come il Golfo Persico e l’Africa. Particolarmente i paesi dell’Africa centrale e del Nord». Raggelante.
Uhm! Vedo che s’è preparata bene. Il fatto è che Israele è un paese molto particolare. E per motivi particolari, che poi si riassumono nelle persecuzioni, deve affrontare problemi globali di sicurezza globale. Tali problemi sono racchiusi in tre circoli. Primo circolo, il terrorismo palestinese. Secondo circolo, il confronto coi paesi arabi che a tutt’oggi ci oppongono tredicimila carri armati. Terzo circolo, l’espansionismo sovietico che per molti anni è andato allargandosi in Medio Oriente e in Africa. Il punto è come difendere il nostro diritto a esistere in quei tre circoli senza diventare la Prussia del Medio Oriente, come dice lei.
Ma chi vi minaccia in Africa, in Turchia, in Iran, in Pakistan? E a che cosa mirate in realtà? Non capisco. Io non vorrei che l’invasione del Libano fosse l’inizio di una operazione più vasta che non si fermerà affatto in Libano. Non vorrei che la cacciata dell’OLP da Beirut facesse parte di un piano più complicato, diciamo napoleonico.
La risposta è no. Definitivamente no. Lei parla come se volessimo occupare i territori dove abbiamo interessi strategici. Parla come i turchi quando ci accusano di includere la Turchia nella sfera dei nostri interessi strategici perché vogliamo invaderli. La faccenda è ben diversa e gliela spiego con una domanda. Se i russi arrivassero alle spiagge del Golfo Persico, ciò riguarderebbe o no la posizione strategica di Israele? Se i russi assumessero il controllo delle risorse petrolifere nel Golfo Persico, ciò toccherebbe o no la sfera dei nostri interessi strategici? Se la Turchia diventasse un paese controllato dai sovietici, ciò avrebbe o no un effetto su di noi? Non abbiamo quindi il diritto di preoccuparcene? Preoccuparsi non significa mica voler conquistare la Turchia, l’Iran, il Pakistan, il Golfo Persico, l’Africa centrale e del Nord!
Generale Sharon, ma chi è il suo vero nemico? Arafat o l’Unione Sovietica?
Miss Fallaci, si metta in testa che senza l’aiuto dell’Unione Sovietica i paesi arabi non avrebbero fatto la guerra a Israele nel 1948. Si scatenarono contro di noi perché alle spalle avevano l’Unione Sovietica, militarmente e politicamente. Quanto all’OLP, esso è sostenuto dall’Unione Sovietica perché l’Unione Sovietica ha capito benissimo che nell’era atomica il terrorismo è l’unico modo per fare la guerra senza rischiare il conflitto nucleare. Per sviluppare il suo espansionismo l’Unione Sovietica ha bisogno dell’OLP, di Arafat. E se lei replica che Arafat non è comunista, io le rispondo: ai sovietici che importa? A loro importa soltanto che egli sia uno strumento del gioco, che rimanga nelle loro mani. È forse comunista la Siria? No, eppure l’Unione Sovietica ha dato alla Siria milleduecento carri armati, centinaia di pezzi di artiglieria, numerosi e modernissimi jet. È forse comunista la Libia? No, eppure l’Unione Sovietica ha dato alla Libia millenovecento carri armati, artiglieria, jet. Tutti parlano degli americani, delle armi americane. Le assicuro che le armi distribuite dall’Unione Sovietica in questa parte del mondo superano mostruosamente quelle che Israele compra dagli americani.
Sì, ci credo, ma torniamo al Libano.
Non vogliamo neanche un centimetro quadrato del Libano!
Neanche al Sud, nella regione del Litani? Cito il Litani perché nel 1955, come lei ben sa, Ben Gurion aveva un piano, poi perfezionato da Moshe Dayan, secondo il quale Israele avrebbe dovuto invadere il Libano, comprarsi un libanese maronita per farlo eleggere presidente, instaurare un regime cristiano, farselo alleato, e infine ritirarsi annettendo la regione del fiume Litani.
Guardi, vi sono due correnti di sionismo: quella politica di Weizmann e quella pratica di Ben Gurion, Golda Meir, Moshe Dayan, la vecchia generazione insomma. Infatti se interroga mia madre che a ottantadue anni vive sola nella sua fattoria coltivando avocado, scopre che crede nell’azione e basta. Io però appartengo alla corrente politica, cioè alla corrente che crede negli accordi, negli impegni, nei termini legali. E, poiché tale corrente è anche quella del governo attuale, le assicuro che non abbiamo alcuna intenzione di tenerci un centimetro quadrato del Libano.
Ma non c’è mica bisogno di prendere nulla. Basta far «eleggere» presidente un giovanotto di trentaquattr’anni, ad esempio un falangista che si chiama Bachir Gemayel, e tener lì l’esercito per «ragioni di sicurezza». Basta farne una colonia di fatto, insomma, come i sovietici in Afghanistan.
Lei è una signora molto carina e voglio essere educato. Non voglio gridare, non voglio strepitare, ma perbacco! Non ho mai udito tante calunnie, tanti insulti! Lei mi calunnia, mi insulta!
Perché? Lo sanno tutti che la sua carta era Bachir Gemayel presidente. Lo sanno tutti che nel Libano passerete almeno l’inverno. Avete perfino distribuito le scarpe speciali ai soldati. Generale Sharon, non finirete mica col restarvi quindici anni come nel Sinai?
No, credo proprio che questa volta durerà molto meno.
Malgrado la vostra necessità di proteggere il nuovo governo alleato?
Le risponderò in stile minigonna, cioè in modo abbastanza lungo da coprire l’argomento e abbastanza breve da renderlo interessante. Non vogliamo interferire con le faccende interne del Libano ma sarebbe un’ipocrisia affermare che accetteremmo un governo disposto a ospitare nuovamente i terroristi e i siriani. Oggi come oggi l’esercito libanese non è abbastanza forte da potersi permettere di stare solo. La Siria occupa ancora quasi la metà del Libano, i terroristi sono ancora a Tripoli e nella valle di Al Bekaa con i siriani, e il nuovo governo è un bambino appena nato grazie a un parto cesareo. Può un bambino appena nato grazie a un parto cesareo affrontare l’odierna situazione nel Libano? No, e dico di più: se i siriani rimangono così vicino a Beirut, se noi abbandoniamo il controllo della strada Beirut-Damasco, il neonato non sopravvive.
E se a forza di stare su quella strada vi ritrovate a Damasco?
Non è necessario arrivare a Damasco. Non dev’esserci bisogno di andare a Damasco. Non desideriamo spingerci fino a Damasco. Non ci teniamo, non ci abbiamo mai tenuto. Io penso addirittura che dovremmo evitare perfino lo scontro nella vallata di Al Bekaa. Ma, se i siriani non si muovono, non ci muoviamo nemmeno noi. E diventa una brutta storia perché le nostre truppe nella vallata di Al Bekaa sono, in linea d’aria, a venticinque chilometri da Damasco. E ciò significa che Damasco è fin d’ora sotto il tiro della nostra artiglieria. Sì, si sono rovesciate le posizioni: prima della guerra l’artiglieria siriana, coi suoi cannoni da 180 in grado di colpire con un raggio di quarantadue chilometri, poteva bombardare i sobborghi di Haifa e le nostre industrie a nord di Haifa; ora, con cannoni meno potenti, noi possiamo bombardare Damasco. E l’idea non ci piace. Perché ricorrere sempre alla guerra per sistemare le cose?
Toh! Credevo che la guerra le piacesse, che ci si trovasse a suo agio.
È l’errore più grosso che la gente fa su di me: dipingermi come un guerriero, un ossesso che si diverte a sparare. Io odio la guerra. Soltanto chi ha fatto tante guerre quante ne ho fatte io, soltanto chi ha visto tanti orrori quanti ne ho visti io, soltanto chi vi ha perduto amici e vi è rimasto ferito come vi son rimasto ferito io può odiare la guerra nella misura in cui la odio io. E se vuol sapere quali sono stati gli anni più felici della mia vita, le dico: i tre anni che ho passato qui nella mia fattoria, a guidare il trattore e allevare le mie belle pecore.
A sentirla parlare così, chi crederebbe al ritratto che fanno di lei?
Quale ritratto?
Bè, dovrebbe saperlo: lei non ha certo la reputazione di un angelo, generale Sharon. Se le elencassi tutti i cattivi giudizi che ho udito su di lei, potrebbe anche perdere lo straordinario controllo che finora le ha permesso di essere così educato e paziente con me.
Dica, dica.
Ecco, per esempio... un killer, un bruto, un bulldozer, un rozzo, un avido di potere...
Altri mi chiamano in modo del tutto diverso.
Lo so. I soldati che le sono devoti la chiamano re d’Israele, re Ariel. E dicono che è un gran leader, un uomo molto coraggioso, leale. Ma l’immagine più diffusa è quella che ho detto prima. Come mai? Da che nasce? Deve pur esserci una ragione. Che sia l’episodio di Qibia?
Miss Fallaci, lei è così brava a dipingere un ritratto perfido di me che per un minuto ho creduto che fosse lei a dare un’intervista su Sharon, non io. Eppure sa bene che raramente l’immagine di un uomo corrisponde a quella che ne danno i giornali. Sa bene che una volta lanciata una calunnia, inventata una bugia, questa viene ripetuta e copiata, infine accettata per verità. Vuol parlare di Qibia? Parliamo di Qibia. 15 ottobre 1953, Operazione Susanna: dal nome della bambina israeliana uccisa col fratellino e la mamma dai terroristi arabi che a Qibia avevano il loro rifugio. L’Operazione Susanna consisteva nel fare saltare le case che ospitavano i terroristi, e io la comandavo entrando personalmente in ogni casa per evacuare la gente prima di sistemare l’esplosivo. Incominciammo alle undici di sera e continuammo fino alle quattro del mattino, quando caddi addormentato per la stanchezza. Nel pomeriggio, svegliandomi, seppi che la radio giordana aveva dato notizia di sessantanove morti: tutti donne e bambini. Non credevo ai miei orecchi perché prima di andarmene avevo contato le perdite del nemico, ed erano una dozzina di soldati giordani. Dov’erano stati trovati, dunque, quei sessantanove corpi di donne e bambini? Sotto le macerie di una casa, mi fu detto, in cantina. Evidentemente si erano nascosti e nel buio non li avevo visti. Mi... mi dispiacque molto. Mi dispiacque tanto che, dopo un altro raid in un villaggio chiamato Mahlin, l’anno dopo, non volli farne più. Anzi raccomandai che quel tipo di operazioni venisse annullato. Che altro?
Bè, scegliamo l’episodio di Gaza. Quello dove uccise trentasette soldati egiziani che stavano dormendo.
Le assicuro che non stavano affatto dormendo. Comunque: Gaza, 1955, Operazione Freccia Nera. Anche stavolta io comandavo il raid, con la famosa unità 101. Dormivano così poco quegli egiziani che fu un corpo a corpo duro e sanguinoso: tornammo indietro con otto morti e dodici feriti. Ciascuno di noi un morto o un ferito sulle spalle. Non c’è bisogno di dire nulla in più. C’è gente che mi odia, lo so, e gente che ha paura di me: specialmente tra i politici. Perché dico sempre quello che penso e faccio sempre quello che voglio, perché non mi muovo con delicatezza, perché non riesco a legarmi coi gruppi che cercano reciproca protezione. Infatti ho cambiato partito cinque volte. Però se quelli che mi odiano o hanno paura di me fossero la maggioranza, come avrei fatto ad avere tanta influenza nel mio paese per tanti anni? Come avrei fatto a fondare un nuovo partito, il Likud, che ha vinto le elezioni due volte e ha provocato una svolta storica nel paese? Da che cosa mi sarebbe venuto il potere di cui dispongo? Gliel’ho detto: c’è la democrazia in Israele.
Un deputato che si chiama Ayer Maur, mi pare, ha detto: «Se Sharon diventa primo ministro, mi chiedo che ne sarà della democrazia in Israele». E un altro ha aggiunto: «Sorgeranno i campi di concentramento».
Senta, lei sta facendo una discussione seria. Non la degradi usando quel nome.
Va bene, sceglierò il nome di Golda Meir che diceva: «Se Sharon si avvicina al ministero della Difesa, faccio il picchettaggio per impedirgli di entrare».
Eh! I miei rapporti con Golda erano buoni quando stavo nel suo partito, il Partito laburista. Ma quando lo lasciai per fondare il Likud, un’impresa che lei considerava politicamente infantile, non me la perdonò. Prese a odiarmi in modo incredibile, con tutta la forza di cui era capace. E Dio sa se Golda era forte, come tutti quelli della sua generazione. Ora che vuol sapere di me?
Voglio sapere se è vero che lei mira a diventare primo ministro, come dicono tutti.
Anzitutto credo che il signor Begin resterà primo ministro per molti anni perché sono convinto che vincerà le prossime elezioni. Il paese, vi ho già alluso, è con lui: se le elezioni avvenissero ora, vincerebbe senza muovere un dito. Poi non ho una voglia pazza di diventare primo ministro: quello che faccio ora mi va benissimo, vi sono tante cose da fare con il ministero della Difesa. Per incominciare, che lei mi creda o no, c’è da sistemare politicamente, cioè pacificamente, il problema dei palestinesi. Noi non abbiamo fatto la guerra ai palestinesi, l’abbiamo fatta ai terroristi dell’OLP, e l’aver risolto il problema del terrorismo dell’OLP significa aver fatto soltanto una parte del lavoro.
Risolto? Ma lei è proprio sicuro d’averlo risolto, generale Sharon? E se invece d’averlo risolto lo avesse moltiplicato, intensificato? Nascerà una generazione di odio dagli uomini che sono stati cacciati, strappati alle loro famiglie, sparpagliati in otto paesi diversi. E d’ora innanzi il terrorismo si abbatterà ovunque, più cieco di sempre, più ottuso di sempre. Sono uomini molto arrabbiati quelli che lei crede d’avere sconfitto. E tutt’altro che rassegnati. Arafat ha appena detto che la lotta continuerà come prima.
Io non parlerei di queste ipotetiche, disastrose eventualità. Infatti non credo che nei paesi dove sono stati accolti essi potranno fare ciò che facevano a Beirut. Sia in Siria che in Egitto che in Giordania non ci sono riusciti, finora, anzi sono stati tenuti lontani dai confini con Israele, e in nessuno di quegli otto paesi esiste un governo disposto a farsi travolgere come a Beirut. Senza contare che, in un caso simile, noi non ce ne staremmo con le mani in mano. Arafat ha detto che continuerà come prima? Al posto suo non ci proverei nemmeno. Gli ho regalato la vita, a quegli assassini. Sono vivi perché io ho scelto di lasciarli vivi. Ma tanta fortuna non costituisce affatto una garanzia per il futuro. Guai a loro se riprenderanno le loro attività sanguinose, anche in paesi lontani da Israele. Guai a loro.
E i quattro milioni di palestinesi che non appartengono all’OLP, che vivono sparsi per il mondo oppure ammucchiati nelle capanne di latta e in tuguri di cemento dei cosiddetti campi in Siria, in Libano, nella West Bank, a Gaza? Che cosa vuol farne di loro, di questi nuovi ebrei della terra, condannati a vagare in una diaspora crudele come quella che voi avete sofferto? Possibile che proprio voi non comprendiate la loro tragedia? Possibile che proprio voi non vogliate ammettere il loro bisogno di avere una casa, il loro diritto ad avere una patria?
Ma la patria ce l’hanno. È la Palestina che ora si chiama Giordania, anzi Transgiordania.
La Giordania di re Hussein?
Certo. Senta, io ci penso da dodici anni e, più ci penso, più concludo che la soluzione può essere soltanto quella. Lo dicevo anche a Sadat. Mi spiego. Fino al 1922 la terra d’Israele, che gli inglesi chiamavano Palestina, si componeva di due parti: la Cisgiordania che voi definite West Bank, e cioè la terra che si estende dal fiume Giordano al Mediterraneo, e la Transgiordania cioè la terra che Churchill dette al padre di Hussein per sistemare il regno ascemita. In Transgiordania il settanta per cento della popolazione è composta da palestinesi, la maggioranza dei membri del Parlamento sono palestinesi, quasi tutti i ministri e i primi ministri sono palestinesi. Il resto, neanche il trenta per cento, sono beduini. I beduini di Hussein. Davvero una soluzione perfetta.
Quindi tutti i palestinesi dovrebbero far le valigie e trasferirsi in Giordania.
Ma ci vivono già!
No, parlo dei profughi ammucchiati in Libano, in Siria, a Gaza, nella West Bank...
Alcuni potrebbero restare nei paesi dove si trovano attualmente, altri potrebbero trasferirsi laggiù.
E di re Hussein, allora, che ne facciamo? Lo ammazziamo, lo mandiamo a Montecarlo a dirigere il casinò?
I casi personali non mi interessano, Hussein non mi riguarda. Può anche restare dov’è, perché no? I greci si scelsero un re anglo-tedesco, perché i palestinesi non dovrebbero tenersi un re ascemita?
Capisco. E i beduini? Quelli dove li mettiamo? Li sterminiamo, li buttiamo a mare come i vietnamiti sgraditi a Hanoi così i giornali riprendono a parlare dei boatpeople, oppure li disperdiamo come i palestinesi di oggi affinché facciano l’Organizzazione di Liberazione Beduina, OLB invece dell’OLP?
I beduini fanno parte della popolazione giordana, anzi transgiordana. Come Hussein, possono restare dove sono. I casi personali, ripeto, non mi interessano. A me interessa soltanto il fatto che la Palestina esiste già, che uno Stato palestinese esiste già, che quindi non v’è bisogno di farne un altro. E le dico: non permetteremo mai un secondo Stato palestinese. Mai. Perché è questa la soluzione a cui tutti mirano: la costituzione di un secondo Stato palestinese, di una seconda Palestina, in Giudea e in Samaria: ciò che voi chiamate Cisgiordania o West Bank. E a ciò rispondo: non avverrà. La Giudea e la Samaria non si toccano. E neanche Gaza.
Ma sono terre occupate, generale Sharon. Ciò che voi avete ribattezzato Samaria e Giudea sono zone conquistate da Hussein e abitate da quasi mezzo milione di palestinesi, a parte i trentamila israeliani che dopo il 1967 si sono installati lì come colonizzatori. Lo dicono tutti che dovete restituirle! Perfino gli americani!
Non si restituisce ciò che ci appartiene. E la Giudea e la Samaria ci appartengono: da migliaia, migliaia di anni. Da sempre. La Giudea e la Samaria sono Israele! E così la Striscia di Gaza. E anche se la Bibbia non contasse, anche se il sentimento non esistesse, v’è la questione della nostra sicurezza e della nostra sopravvivenza. È una questione cruciale perché in quella regione abitano due terzi della popolazione israeliana: senza la Giudea, senza la Samaria, saremmo spazzati via. No, lo ripeto, non permetteremo mai di installarvi un secondo Stato palestinese. Mai! Non fatevi illusioni.
Generale Sharon, lei crede in Dio?
Bè, non sono religioso. Non lo sono mai stato sebbene segua certe regole della religione ebraica come non mangiare il maiale. Non mangio il maiale. Però credo in Dio. Sì, penso di poter dire che credo in Dio.
Allora lo preghi, anche per quelli che non ci credono. Perché ho una gran paura che lei stia per cacciarci tutti in un guaio apocalittico.
Tel Aviv, settembre 1982