il Giornale, 7 novembre 2023
Tim, venticinque anni di errori
Una catena infinita di errori: è la sintesi di venticinque anni di Telecom Italia, oggi nota come Tim, da ieri avviata a cedere la rete che ne ha costituito la spina dorsale dalla fondazione. Una catena di eventi dentro i quali sono condensati tutti i vizi del capitalismo privato italiano esaltati dalla totale inanità o, peggio, dalla complicità di alcuni governi che hanno acconsentito che un campione italiano – sesto gruppo di tlc a livello mondiale e primo in Europa per innovazione tecnologica alla fine degli anni ’90 – venisse spolpato e dilaniato dagli azionisti che di volta in volta ne hanno assunto la guida. Al punto in cui si è giunti, la cessione della rete al fondo americano Kkr, che sarà affiancato dal Tesoro italiano, è una scelta pressoché obbligata. Ma come si è arrivati a tanto? Il più grave degli errori è senza dubbio all’origine, quando nel 1999 il governo guidato da Massimo D’Alema costringe Tesoro e Banca d’Italia (allora soci di Telecom) a farsi da parte in nome di una non meglio precisata «neutralità» davanti all’Offerta pubblica da 60 miliardi di euro, gran parte a debito, lanciata (...) (...) dai cosiddetti «capitani coraggiosi» guidati dal mantovano Roberto Colaninno. Tre anni dura la cavalcata delle sue truppe prima che Telecom, opportunamente smagrita per fare ricchi i novelli capitalisti, sia ceduta alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera che ne assume il controllo promettendo di ridurre la filiera di scatole cinesi, molto di moda in quegli anni, che ha reso possibile l’Opa. Ma quando Tronchetti approda in Telecom si accorge che molti punti di forza già sono stati indeboliti dal formidabile appetito e dalla scarsa competenza del team dei mantovani. Basti citare la fusione tra Seat Pagine Gialle e Tin.it di cui vale ricordare i tratti essenziali. Al momento dell’annuncio, primavera 2000, quindi punto più alto della bolla azionaria, Seat capitalizza in Borsa 72 miliardi – ben più dell’Eni e dell’Enel – destinati però a scendere a 8 miliardi nel giro di un anno e mezzo. Eppure Colaninno impegna Telecom in un’operazione che costa alla società un deflusso di 6,7 miliardi che, essendo transitato nel percorso Torino-Torino per il Lussemburgo (la linea della geografia del nuovo capitalismo non è precisamente retta), non ha lasciato nomi e cognomi dei destinatari finali. Per non dire della situazione finanziaria: se nel 1998 Telecom Italia non ha praticamente debiti e vanta una redditività invidiabile, a conclusione del triennio di Colaninno il debito è addirittura doppio del patrimonio. Senza entrare nel merito delle dinamiche che hanno portato a trasferire nel bilancio della società i costi della famigerata scalata, si può dire che il problema del debito è stato il principale ostacolo della gestione nei vent’anni successivi, combinandosi con una redditività di base fatalmente in declino a causa di una competizione crescente divenuta esiziale, colpa anche di un gap tecnologico con i competitor che via via è andato ampliandosi. Si potrebbero scrivere tre libri sulla storia recente di Tim-Telecom, vista l’abbondanza di materiale offerto dai passaggi chiave coincisi con i trasferimenti del controllo. A cominciare dal primo, frutto della necessità di privatizzare il gruppo nel 1997 per consentire al governo Ciampi di ottenere in extremis l’ammissione dell’Italia all’euro, una privatizzazione che avrebbe dovuto rappresentare la «madre di tutte le privatizzazioni» e che invece si concluse con uno striminzito nocciolino di comando grazie al quale la famiglia Agnelli aggiungeva potere a potere sborsando, come è sempre stato nello stile della casa, una manciata di euro. Ma se i sogni industriali di Tronchetti sono svaniti per le nuove complessità del business e per le crescenti quantità di risorse necessarie, indovinate chi nel 2007 è sceso in soccorso del gruppo telefonico? La solita cordata di «sistema» composta dalle solite grandi banche, ma questa volta affiancate da un partner straniero, l’iberica Telefonica, che di lì a qualche anno diverrà azionista di controllo. Ma a causa del colossale debito – che nel frattempo era cresciuto ben oltre 30 miliardi – le nuove risorse non bastavano mai, e dopo mille polemiche per aver lasciato i progetti telefonici nazionali in mano a un concorrente straniero, la grande alleanza finisce in gloria, con Telecom trasformata in public company e affidata al mercato in balia del primo raider disposto a versare nuova benzina nei suoi serbatoi. Ed ecco i francesi di Vivendi, che nel 2016 con poco meno del 25% rastrellato sul mercato per evitare il lancio dell’Offerta pubblica assumono il comando della società. E con il loro arrivo gli errori si moltiplicano. Posto che l’obiettivo ambizioso del gruppo guidato da Vincent Bolloré guardava oltre i confini di Telecom perché comprendeva la conquista di Mediaset per farne un gruppo integrato, il cambio di cinque amministratori delegati alla guida della società (Marco Patuano, Flavio Cattaneo, Amos Genish, Luigi Gubitosi, Pietro Labriola) in solo 8 anni da azionista di maggioranza, la dice lunga su lucidità e chiarezza del progetto. Soprattutto in considerazione del fatto che di aumenti di capitale non si è vista l’ombra. Anche questo la dice lunga sulla reale finalità del progetto.