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 2023  novembre 07 Martedì calendario

Lucrezio poeta latino contemporaneo, il libro di Ivano Dionigi

«Io annuncio cose inaudite (res novae)». Con questo messaggio rivoluzionario Lucrezio irrompe nella conservatrice Roma repubblicana del I sec. a.C. E dopo duemila anni quell’annuncio dell’inaudito è ancora lì, con il suo richiamo all’indissolubilità del nostro destino con la natura e con il suo grido preoccupato e ultimativo sulla nostra condizione di dissennati (stulti) e infelici (miseri).
 L ucrezio resiste al tempo e alle mode, conforta e perfino sfida le grandi questioni del nostro presente, prefigurandone analisi, interrogativi e anche prospettive. Quel poema scandaloso, La natura, colpito prima dalla congiura del silenzio e poi scomparso dalla circolazione per un millennio, non solo ha cambiato il volto della cultura europea, ma continua a parlare di noi e a noi. Ha ancora da essere.
Penso alla concezione cosmica per cui noi uomini, formati di atomi, siamo marginale e addirittura minuscola parte dell’universo. Nessuna centralità dell’uomo, dal momento che gli universi sono infiniti, e nessuna gerarchia tra le varie realtà – le foglie degli alberi, i fiocchi di neve, i sassi del fiume, tutte le specie dei viventi, il cielo, il mare, la terra: tutti formati dagli stessi atomi (eadem elementa) e tutti vincolati dalla stessa legge (eadem ratio). Tutto è in relazione, anzi tutto è relazione, e quindi tutto ha la stessa dignità. Il Cantico delle creature lo dirà in modo più lirico, personale, coinvolgente. Non stiamo forse assistendo alla perdita della nostra centralità nel mondo, da un lato richiamati e allarmati dai gemiti della natura che vuole essere libera e non più vexata, dall’altro spodestati dalle stesse macchine che abbiamo costruito?
Penso alla «visione e scienza della natura» (naturae species ratioque), l’antenna lucreziana che consenta la “rivelazione”, quella “apocalisse” che dalle tenebre dell’ignoranza ci conduce alla luce della ragione. Politica, religione e amore sono costruzioni della mente, forme di alienazione e fonti di infelicità: indossano una maschera (persona) e nascondono la realtà (res). La sapientia è l’ars suprema, la tecnica risolutiva. Tutte le altre arti e tecniche innescano una spirale perversa e una proporzione inversa tra il progresso tecnico e materiale e il regresso interiore e morale. Giunto al punto più alto (summum cacumen) delle varie arti manuali e liberali, l’uomo sconta il suo fallimento e rimpiange la vita primitiva (vita prior), quando considerava una grande ricchezza accontentarsi del poco (vivere parce) e non conosceva ancora il malsano attaccamento alla vita (cupido vitae) e la paura della morte (timor mortis). Quella sapientia – a fronte della religio tradizionale, inutile, falsa e criminale – ci fa sperimentare la forma più nobile e spirituale di pietas: contemplare il tutto con mente serena. Grazie a questa “visione e scienza della natura”, Lucrezio ha capovolto e sterilizzato eroi e simbologia del mito: si è spinto nell’indagine dell’universo fino al sole, senza dissolversi come Icaro; ha debellato la passione e la paura, mostri ben più terribili di quelli abbattuti da Ercole; ha guidato una nuova spedizione argonautica con lieto fine, a differenza di Giasone; è sceso agli Inferi riportando con sé i dannati, senza voltarsi indietro come Orfeo; ha disarmato gli dèi, rendendoli inoffensivi e incapaci di imprigionare Prometeo.
Penso all’individuazione del grande nel piccolo, a quello che i fisici chiamano «infinitamente piccolo», frontiera per la quale Lucrezio ci è guida e maestro: «Un piccolo fenomeno (parva res) può rappresentare un modello (exemplare) / di grandi fenomeni (magnae res)».
Penso all’illusione degli amanti di realizzare compiutamente l’unione dei corpi nell’atto sessuale, alla vana aspirazione di fondersi in un unico corpo: nequiquam, «inutile, impossibile», ripete Lucrezio. Vano lo sforzo degli amanti di identificarsi l’uno con l’altro, stante la irriducibile trascendenza dell’alterità. Concezione, questa, che prelude alla celebre tesi lacaniana dell’inesistenza e dell’impossibilità del rapporto sessuale.
Penso all’agostiniana magna quaestio della morte, la quale alimenta la nevrosi del potere economico (avarities) e politico (honorum cupido), e spinge a prevaricare sugli altri, causando sciagure e delitti nell’illusione di allungare la propria vita: un’anticipazione della riflessione che ritroviamo in un autore a noi vicino e caro, come Elias Canetti. Con un aggiornamento: ora al potere della tecnica, più che a quello della politica o dell’economia, noi affidiamo la rimozione e addirittura il superamento della morte. Penso alla descrizione della tragica peste di Atene nel finale del poema, la quale, con consonanze sconcertanti, preannuncia gli stessi disorientamenti e traumi della pandemia di questi anni orribili. Impotenti, ora come allora, la medicina, la religione e la pietà dei parenti. Con i nostri occhi li abbiamo visti i medici supplire con la compassione alla carenza di terapie; le abbiamo viste le chiese diventare cimiteri, i carri funebri camere mortuarie, il Papa, solo, in una piazza San Pietro deserta, a testimoniare non la potenza del rito ma la passione della croce; li abbiamo visti negli ospedali i mariti separati dalle mogli, i fratelli dai fratelli, gli amici dagli amici. E morire senza potersi tenere per mano e neppure salutarsi. Lucrezio lo aveva detto.