Linkiesta, 6 novembre 2023
Quand’è finito il Novecento
Quando è finito il Novecento? Chiunque abbia letto Chuck Klosterman o anche solo me sa che le epoche non sono affare di calendario ma di percezione culturale, e che quindi il millennium bug c’entra pochino, e non ha alcuna rilevanza il noiosissimo dibattito che vuole decidere se si debba contare dallo zero o dall’uno. Quand’è finito quel secolo lì?
Nel 1989, quand’è venuto giù il muro di Berlino? Nel 2001, quando sono venute giù le torri gemelle? Nel 2002, quando sono comparsi i cartellini coi prezzi in euro? Nel 1991, come sosteneva quel libro che andava di moda quand’eravamo giovani e che avendo fretta d’uscire aveva fatto finire il secolo quando l’autore doveva consegnare all’editore?
L’anno scorso, quando sono morti Monica Vitti e Jean-Luc Godard? Due anni fa, quand’è morta Nicoletta Orsomando? Vent’anni fa, quand’è morto Giorgio Gaber? Sabato, quand’è morta Marina Cicogna?
Ogni morto famoso, nel tempo in cui smaniamo per dire la nostra, è la fine d’un’epoca. Siamo diventati tutti come i collaboratori pagati a cottimo dei giornali, che pur di piazzare un articolo in più spacciano, a capiservizio che non sanno trovarsi il culo con le mani, ogni fattarello come altamente significativo.
Se Matthew Perry che muore rappresenta la fine del Novecento, allora cosa diciamo quando muore Jack Nicholson, o Pippo Baudo, o Henry Kissinger, o Mina, o Mick Jagger, o Sophia Loren? E siamo sicuri che il secolo non fosse già finito prima di finire, con la morte di Marcello Mastroianni o con quella di Fellini?
Chissà come si stava senza social – chi se lo ricorda più – quando non potevamo esprimerci per iperboli se non nelle nostre camerette, e dire cosa rappresentassero la morte di Liz Taylor o quella di Giulio Andreotti, quella di Nilde Iotti o quella di Billy Wilder. Siamo sicuri che il Novecento non sia morto con Frank Sinatra?
Il fatto è che gli slogan, esattamente come le parole delle canzonette, più mentono più funzionano. Quando, più di trent’anni fa, il tapino Francis Fukuyama scrisse “La fine della storia”, mica poteva sapere che il mondo si sarebbe ribaltato altre trecento volte, e che la fine era un’idea suggestiva ma assurda quanto quelle diete che ti promettono di farti perdere sette chili in sette giorni (forse il Novecento finisce quando muore Verdone).
Più ancora di Fukuyama, a farsi truffare dalla suggestione dello slogan è stato Eric Hobsbawm – e a seguire noialtri, in uno schema Ponzi della truffa intellettuale grazie al quale abbiamo ripetuto per anni il titolo “Il secolo breve” come avesse un senso; come il Novecento non fosse un secolo infinito, sterminato, abbastanza lungo e largo da contenere i Beatles e Claudio Villa, Charlie Chaplin e Paolo Villaggio, il referendum tra monarchia e repubblica e Tangentopoli, il Vietnam e Bellini e Cocciolone, Barbra Streisand e Rita Pavone, il Concorde e i villaggi vacanze, James Joyce e Elsa Morante, Simone de Beauvoir e Marcel Proust, Mike Bongiorno e Alfredino Rampi, Woody Allen e Thomas Bernhard, Sid Vicious e Ella Fitzgerald, Sigmund Freud e Umberto Eco, “Il dottor Zivago” e “Tre metri sopra il cielo”, “Via col vento” e Andy Warhol, la regina Elisabetta e Nanni Moretti, Mitterrand e Che Guevara.
Oggi al cinema esce “Io, noi e Gaber”, e poi magari ne parliamo meglio, ma quando l’ho guardato ho pensato a una canzone apparentemente minore che nel documentario non c’è – perché il repertorio di Giorgio Gaber è così sterminato che se vuoi mettercele tutte devi fare un documentario di diciotto ore – e s’intitola “La strana famiglia”. «Anche se soffriamo molto noi facciamo un grande ascolto: siamo quelli con l’audience più alto»: è al tempo stesso un’istantanea della tv com’era negli anni in cui è stata scritta (metà anni Ottanta) e della tv (in ogni sua forma, da TikTok in su) come sarebbe diventata nei decenni successivi.
Giacché, come diceva a fine Novecento un regista romano, «siamo diversi e siamo uguali, siamo uguali e siamo diversi». Ieri Concita De Gregorio scriveva su Repubblica che per capire le guerre bisogna studiare, mica tifare, e io mi chiedevo in quanti e quante volte avessimo scritto, negli ultimi anni, che bisogna studiare, e se non sia il caso di smettere di predicarlo, specie alternandolo agli accorati «Dobbiamo ascoltare questi giovani analfabeti che ci insegneranno la vita» nei quali inevitabilmente casca chiunque abbia figli. (Forse il Novecento è finito quand’è morto il maestro Manzi).
Ricopio un Michele Serra di quattr’anni fa: «Leggere è fatica e lavoro, scrivere è fatica e lavoro, imparare è fatica e lavoro, la cultura è fatica e lavoro, migliorarsi è fatica e lavoro, emendarsi da quella bestia che siamo è fatica e lavoro». Fatica e lavoro che, francamente, non si capisce perché fare, quando ottieni gli stessi risultati instagrammandoti mentre fai le boccucce. («Abiti che contro il vento stiano tesi, e tutto il resto siano balle: vecchio lavoro da cinesi»: forse il Novecento finisce quando muore Paolo Conte).
Nel documentario su di lei uscito qualche mese fa (lo trovate su RaiPlay), Marina Cicogna dice che lei e Ginevra Elkann si erano riconosciute, sulle piste da sci di Sankt Moritz, una già anziana e l’altra piccina, perché erano tra le pochissime nate ricche che volessero combinare qualcosa col loro ingegno: che volessero lavorare, invece di pensare solo a esser decorative. (Forse il Novecento era iniziato con la morte di Karl Marx ed è finito quand’è morto Yves Saint-Laurent).
Gaber riteneva fosse un lavoro persino la monogamia, e io con quest’idea ho sempre avuto un problema, trovo che “Il dilemma” sia un testo per il quale sarebbe valsa la pena armare un processo politico, ma la distanza forse è quella lì: tra un secolo in cui tutto era lavoro, e un secolo in cui guai a chi osa dirci che qualcosa lo è. Questa nostra scelta, o questa nostra nuova sorte.
Il dettaglio più novecentesco intorno al documentario di Gaber non so se sia vero o un pettegolezzo (in caso: print the legend, come diceva un film di sessant’anni fa, e nessuno dei giovani analfabeti che fanno conto su Google lo sa, giacché la frase è usata per titolare qualcosa di recente che sta su Netflix, e quindi per loro quello è. John Ford chi lo conosce, vuoi mettere Netflix. Massì, bello di mamma, hai ragione).
Non so se sia vero, ma si dice che, tra gli intervistati di “Io, noi e Gaber”, dovesse esserci Giorgia Meloni. Che qualcuno la volesse e qualcuno no, qualcuno fosse preoccupato dell’appropriazione di Gaber da parte della destra e qualcuno insistesse, e che poi alla fine si fosse deciso di fare un po’ all’ultimo quest’intervista. Che poi non si è fatta perché, il giorno stabilito, l’agenda della Meloni è stata scombussolata dalla morte di Giorgio Napolitano. Una delle ultime novecento volte in cui è finito il Novecento.