il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2023
Tim, un omicidio durato trent’anni
Ella fu. Tim continuerà ancora formalmente a vivere per un po’, almeno fino alla vendita pezzo dopo pezzo di quel che rimane, ma la lunga storia della società iniziata nel 1933 con la fondazione della Stet è finita ieri ed è, per i suoi ultimi trent’anni, una storia ingloriosa in cui convergono l’insipienza dolosa o colposa della classe dirigente politica e il cialtronismo straccione della cosiddetta “grande impresa” italiana, ché “il cretinismo degli industriali” di cui Antonio Gramsci non può coprire tutta la vicenda.
L’ultimo atto, com’è noto, l’ha scritto ieri pomeriggio il cda della malmessa Tim: vendere entro l’estate – e senza manco passare da un’assemblea dei soci – la rete telefonica al fondo Kkr, che grazie a Meloni&Giorgetti si ritroverà come soci di minoranza il Tesoro e Cdp. Quel che resterà è una società di servizi debole, con troppi debiti, troppi dipendenti e un azionariato che si prepara a una sanguinosa guerra legale – annunciata ieri dal primo azionista, la francese Vivendi – per annullare la vendita della rete. Questo disastro inizia però trent’anni fa, quando “la madre di tutte le privatizzazioni” fu necessaria all’Italia per rispettare i parametri di Maastricht: nessun piano industriale, solo il bisogno di fare cassa. È la prima delle molte scelte finanziarie che hanno portato all’inferno un colosso industriale.
Tim nel suo perimetro attuale nasce tra il 1994 e il 1997 dalla fusione della Sip con la Stet dell’Iri. L’azienda, citiamo dal recente Illusioni perdute di Marco Onado e Pietro Modiano (Il Mulino), nel 1998 è “la quarta in Italia per fatturato e la prima per valore aggiunto, aveva una elevata redditività (l’utile superava l’11% del fatturato) e praticamente non aveva debiti”. A non dire che occupava 120mila persone contro le 40mila di oggi e aveva “una forte capacità innovativa” garantita da consociate all’avanguardia come la Cselt.
A Palazzo Chigi c’è Romano Prodi e la privatizzazione è gestita a livello politico dal ministro dell’Economia Carlo Azeglio Ciampi e a livello tecnico dal dg del Tesoro Mario Draghi: si decide di venderla tutta, ma spingendo a investire un gruppo di azionisti italiani, il “nocciolo duro”. Lo Stato incasserà 26mila miliardi di lire e Telecom finirà a un “nocciolino” che ha meno del 7% del capitale ed è guidato dalla Fiat con un misero 0,6%. Si butta un anno e più tra incertezze e litigi, con gli Agnelli che impongono un vertice digiuno di competenze nel settore, finché (febbraio 1999) non arriva l’Opa di Roberto Colaninno, frontman di una cordata basata in Lussemburgo a cui partecipano Enrico Gnutti, i Lonati e altri. Sono “i capitani coraggiosi” benedetti dal premier dell’epoca, Massimo D’Alema, che prendono il controllo di Telecom via scatole cinesi e leva finanziaria. Tradotto: il controllo della società passa in una finanziaria estera, la Bell, che controlla Olivetti che controlla Telecom; la gran parte dell’Opa viene finanziata a debito, debito che – come sempre in questi casi – viene poi scaricato sulla stessa Telecom, che in sostanza paga per farsi comprare.
Passano due anni, a Palazzo Chigi torna Silvio Berlusconi ed è il turno di Marco Tronchetti Provera di Pirelli: stavolta non c’è nessuna Opa perché per prendersi Telecom basta prendersi Bell. Tronchetti strapaga le azioni dei padani, che ne escono con una plusvalenza miliardaria su cui il Fisco contesterà evasione e sanzioni per 2 miliardi di euro (tutto sarà perdonato pagando 200 milioni circa). Il debito aumenta ancora e a questo punto, siamo nel 2003, è ormai il doppio del patrimonio: gli utili finiscono quasi tutti alle controllanti che devono pagare gli interessi sui prestiti presi per le loro scalate, mentre Tronchetti controlla il tutto dall’alto del suo 1,12% del capitale. La sua gestione è quella che è, anche in termini di buon gusto, tipo le dismissioni di immobili Telecom a cui partecipa indirettamente Pirelli RE. La società s’avvia ormai moribonda alla rivoluzione delle tlc: non la salveranno “l’operazione di sistema” tra le banche e la spagnola Telefonica (2007), che pure consentì di andarsene felice pure al buon Tronchetti, né l’ingresso “ostile” dei francesi di Vivendi (2018) o la reazione della strana coppia tra il fondo britannico Elliott e Cdp, oggi secondo azionista di Tim col 9% circa.
È stato calcolato che questo rutilante avvicendarsi di azionisti sia costato a Tim tra debito e dividendi qualcosa come 70-80 miliardi. E così si arriva all’ennesima operazione finanziaria: la vendita della rete al prezzo di 20-22 miliardi, che Kkr pagherà per metà a debito. La Tim che resterà, ServiceCo, è un’azienda senza futuro: “La società sarà venduta a pezzi”, ha detto ieri Franco Bernabè, che nel 1999 da presidente Telecom provò a resistere a Colaninno e soci e oggi, ironia della sorte, è presidente dimissionario dell’Ilva, un’altra storia di privatizzazione fallimentare.
Quanto alla rete Tim, un’infrastruttura strategica e monopolista del mercato, viene venduta a Kkr con la contrarietà del primo azionista e il non voto del secondo (è in conflitto di interessi: controlla Open Fiber), ma con la benedizione di Meloni e i soldi dei contribuenti (ma ce ne vorranno di più: il cda di Tim chiede un prezzo migliore per i cavi sottomarini di Sparkle, destinati appunto al Mef). Non si sa se la rete avrà gli investimenti di cui necessita: quello che si sa è che il fondo Usa avrà il solito rendimento del 10% sul capitale investito.