il Giornale, 6 novembre 2023
L’arte poverissima di Emilio Prini
In una cena organizzata dai galleristi Franco Toselli e Massimo Minini, Emilio Prini, Millo per gli amici, scatenò una rissa mettendo le mani addosso a Charlemagne Palestine, il famoso musicista americano, reo di non si sa bene cosa, forse solo di una battuta sbagliata. È Minini a raccontarlo, nel suo diario-atlante Scritti, dove su Prini aggiunge: «Lui si offende sempre per ragioni misteriose». E racconta anche della volta in cui, in un’altra cena, Prini, minuto e malaticcio, rovesciò una scodella di zuppa addosso a un ospite di taglia gigantesca e lo prese pure per il collo, perché, pare, costui aveva messo una mano sulla spalla della sua ragazza.
I due aneddoti risalgono alla metà degli anni ’90, quando Prini, nato nel 1943 e scomparso nel 2016, aveva già ampiamente consolidato la sua aura leggendaria di artista scontroso, indipendente, imprevedibile, ingestibile. Del quale non esistono interviste ufficiali o monografie, perché Prini non ne ha mai autorizzato la pubblicazione. Lo stesso vale per i cataloghi, con una sola eccezione: Fermi in dogana, unico pubblicato con Prini in vita, stampato in occasione dell’omonima mostra del 1996 al Musee d’art moderne et contemporain di Strasburgo. Hans Ulrich Obrist, il curatore-star, nel suo A cosa serve l’arte racconta che aveva sempre voluto esporre Prini e scrivere di lui, ma che sempre aveva ricevuto risposte negative, frustranti, esasperanti. «Era quasi impossibile organizzare una mostra di Prini perché non le faceva volentieri» scrive. «Ho avuto infinite conversazioni con Prini, ma non ha mai voluto che le pubblicassi», scrive pure. Ma che c’entra il catalogo di Fermi in dogana? Obrist ne aveva una copia e con quella era andato a trovare Prini nel suo studio. Prini aveva subito afferrato il volume e, metodicamente, ne aveva strappato ogni pagina, una dopo l’altra, dicendo inflessibile «Non valido. Non valido». A proposito: in questo momento nei siti specializzati ci sono in vendita solo due copie di Fermi in dogana, una costa 800 euro, l’altra 1000. Povero Obrist, insomma. Ma quanto alle opere? Rarissime negli anni le occasioni di vederle in galleria, rarissimi i passaggi in asta. Ad «Artissima», la fiera dedicata all’arte contemporanea che si è tenuta a Torino (Oval Lingotto Fiere) e si è chiusa ieri, ML Fine Art ha presentato nel proprio stand una dozzina di pezzi di Emilio Prini. E questo è un evento.
Emilio Prini è stato uno dei fondatori dell’Arte Povera. O, mettiamola così, Germano Celant, che l’Arte Povera l’ha inventata, codificata, promossa, l’aveva inserito nel gruppo originale esposto nella prima leggendaria collettiva «Arte Povera Im Spazio», inaugurata nel settembre del 1967 alla galleria La Bertesca di Genova. Tra quei primi poveristi riuniti da Celant, oltre a Prini c’erano Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Pino Pascali, tutti oggi diventati star, tutti aggiudicati in asta a prezzi da capogiro. Guardando solo a Christie’s e ai suoi record price, Boetti ha superato i sei milioni di euro, Fabro e Pascali hanno sfiorato i tre milioni, Kounellis e Paolini sono arrivati al milione e mezzo.
Emilio Prini, nel 2016, anno della sua morte, ha ottenuto il proprio record price nella casa d’aste londinese, ad appena 56.250 sterline. Si trattava di una collezione di tre stampe fotografiche di una sua opera/azione, e probabilmente questo, insieme al carattere burrascoso e intransigente, è stato il problema di Prini. Intendo dire che, soprattutto nei suoi primi anni interni all’Arte Povera, produceva situazioni, azioni, mosse concettuali, anziché sculture, installazioni, oggetti. Le sue opere potevano ad esempio essere fogli di carta che fermava con dei pesi sul pavimento della galleria, opere che però poi scomparivano, perché venivano disinstallate e distrutte. Al loro posto, talvolta, rimanevano testimonianze fotografiche firmate dall’artista, e quello era tutto ciò che si poteva vendere.
Pur continuando a restare incluso nelle grandi collettive sull’Arte Povera come When attitudes become form alla Kunsthalle di Berna (1969), e le retrospettive di Documenta X a Kassel (1997) e della Tate Gallery a Londra (2001), Prini si staccò presto dal gruppo. Accadeva mentre (e forse proprio per quello) l’Arte Povera diventava istituzionale, dominante, sempre sedicente «rivoluzionaria» ma in realtà presenzialista e comodamente sistemata all’interno dell’egemonia culturale di sinistra. Difficile da digerire per uno che tra i concetti fondanti aveva la sua sottrazione, l’assenza dell’artista dall’opera, se non l’assenza dell’opera stessa.
Col passare degli anni, Prini, fedele anche all’uso di materiali miseri, minimi, esteticamente non attraenti, produsse finalmente anche opere fisiche, ma mai spettacolari, mai nemmeno accattivanti, e in cui la mano dell’artista continuava a essere pressoché assente. Ne sono un ottimo esempio i Fogli da un taccuino di legno, opera del 1996 presente ad «Artissima» nello show-evento della galleria ML Fine Art: un set di pannelli di compensato alti oltre due metri e larghi uno, su cui sono tracciate a matita poche sottili figure geometriche o minimi segni di gesso e pittura, presentati insieme a un pannello di dimensioni simili, di un uniforme colore blu, realizzato a smalto su legno.
Insieme a queste, con prezzi che variano da 10mila a 90mila euro, ML ha esposto anche qualche raro classico fine anni ’60 – primi ’70, cioè fotografie d’epoca di azioni di Prini e da lui firmate, una delle quali appartiene proprio alla serie Fermacarte (già, la famosa carta fermata con i pesi sul pavimento), e un’altra alla misteriosa serie Magnete/Proiezione TV/Programmazione di elementi a proiezione miniaturizzata con cancellazione alterna del quadro.
Infine, non mancava l’immagine più iconica di Emilio Prini, Manifesto per una sua mostra (da Goya): l’enigmatico artista appare di profilo, i capelli lunghi fino alle spalle, e traguarda attraverso una sorta di mezzo occhialino triangolare. Come a ricordarci il suo sguardo laterale, faticoso e obliquo e storto, sull’arte e sul mondo.