La Stampa, 6 novembre 2023
Che senso avrà la vita quando non lavoreremo più?
Elon Musk, in un suo recentissimo intervento alla Lancaster House, ha detto che a un certo punto l’Intelligenza artificiale (Ia) sarà in grado di liberarci dal lavoro, ovvero di permetterci di scegliere e, semmai, lavorare non più per bisogno ma solo per soddisfazione personale. E fin qui nulla di così strabiliante: è un pensiero che, chi più e chi meno, ormai abbiamo tutti. Ma alla fine ha aggiunto una piccola ma devastante frase: la sfida del futuro, una volta abolito il lavoro, sarà «come trovare un senso alla vita».
È stato da sempre il desiderio dell’umanità, quello di non lavorare, il sogno, l’utopia. John Maynard Keynes, nel suo librino Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930), già prevedeva questa splendida opportunità; e Bertrand Russel, in un suo breve saggio del 1932, Elogio dell’ozio, auspicava che avremmo lavorato per sole quattro ore al giorno, godendo finalmente di un tempo libero che – si augurava – avremmo speso a oziare, nel senso più alto e antico del termine.
Ora che il sogno si avvererà, dovremmo dunque festeggiare. Potremo finalmente contemplare molto il mare, le stelle, le opere d’arte. Leggere tantissime poesie, coltivare fiori, fare biscotti. Passeggiare per sentieri di montagna, fare canottaggio, pallavolo, nuoto, golf, palestra. Frequentare molto le terme, i centri commerciali. Bivaccare nei dehors di bar e ristoranti. Smanettare a tempo pieno su tablet, telefonini, computer. Essere dunque, finalmente, quel che in parte più o meno siamo già, in questa nostra magnifica società del benessere: intellettuali, filosofi, sportivi, compratori seriali, esseri digitali. Con la sola variante che lo saremo di più, di continuo e all’ennesima potenza.
È qui che troveremo il nuovo senso della vita? Non so. Siamo gravati da un peso storico che ci condiziona non poco: abbiamo passato millenni a lavorare. Abbiamo, nei secoli, cacciato animali, coltivato terre, pascolato pecore, forgiato metalli, costruito case, strade, piramidi, curato malati, scolpito statue, istruito allievi, scritto libri, cucito abiti, prodotto ogni sorta di oggetto, utile e inutile. Insomma, abbiamo acquisito un’abitudine millenaria al lavoro. E gli abbiamo attribuito, ebbene sì, il senso della vita. Ci siamo convinti, nei secoli, che il lavoro ci dava un’identità. Siamo stati (e siamo ancora, non sappiamo per quanto): idraulici, chirurghi, cuochi, professori, artisti, meccanici, camionisti, panettieri, psicologi, baristi, falegnami. E ora, a un certo punto, non lo saremo più. L’Intelligenza artificiale ci sostituirà, con tutta la nuova progenie di robot.
Fine. Abolito il lavoro, il dovere, l’imperativo etico, la fatica di lavorare. È possibile che molti camionisti, professori, panettieri, avvocati, delusi e stanchi del loro lavoro, dicano: «Finalmente!».
Ma non so. Un sottile turbamento ci prende. Il lavoro ci forniva anche un piacere. Non so se avete idea della felicità di un chirurgo quando opera, di un insegnante quando spiega Petrarca, di un idraulico quando costruisce l’intricato percorso di tubi sotto il pavimento di un’abitazione.
Certo, potremo sempre farli per puro diletto, questi lavori. Potremo tirar su muri nel giardino e ripararci il rubinetto del bagno, se ci andrà di farlo. Potremo anche operare di appendicite un nostro amico, chiedendo in prestito per un paio d’ore una sala operatoria? Può darsi. Ma non avremo più un’utilità sociale, se faremo tutto ciò soltanto per un nostro individuale piacere. Non avremo più un ruolo, uno scopo. Forse non ci andrà neanche più di studiare… A che pro laurearci in Giurisprudenza sapendo di non diventare mai avvocato? Per passare il tempo? Per il piacere di recitare a noi stessi una stupenda arringa davanti allo specchio in camera da letto? Non so. Cucineremo ancora? Alleveremo i figli? Faremo sesso? Guideremo l’auto? Sì, certo, continueremo a farlo. Ma solo se ne avremo voglia, altrimenti incaricheremo Ia e robot di agire al posto nostro.
In compenso giocheremo moltissimo a carte e a ping pong, faremo parapendio, rafting, snorkeling. Viaggeremo di più. Visiteremo musei all’impazzata, mostre, fiere del cioccolato. Ci basterà? Il rischio non sarà la noia? Un po’ come la prospettiva di finire in Paradiso e passarci l’eternità: un tempo così vuoto, che ci sgomenta.
In senso un po’ più laico: vivremo tutti come pensionati. Indipendentemente dall’età e senza aver mai lavorato, tutti presi in un unico Pensionario Cosmico Universale, dove ci sarà concesso passeggiare nei viali, sederci sulla panchina, far pisciare il cane. Tutti quanti. Per sempre.
Non è soltanto il problema di come passare il tempo, e nemmeno di dare un senso alla vita. Il problema è come distrarci dal pensiero della morte. Il lavoro ci serve, anche, a questo: ci occupa i pensieri in altro. Per questo capita così spesso che ci buttiamo a capofitto nel lavoro, e che la domenica ci faccia orrore: non vogliamo stare inermi davanti al vuoto.
Mi viene una sola speranza: che l’Ia ci insegni a smetterla con certe domande metafisiche. Che ci insegni a vivere e basta. Come fanno serenamente i cani, le giraffe, i topi, i pappagalli. Basterà imparare la saggezza imperturbabile degli animali.
Involuzione senza scampo o mirabile progresso? Incomparabile evoluzione o declino definitivo dell’umanità?
ChatGPT, interrogata, non risponde.