La Stampa, 6 novembre 2023
Don Antonio e Lady Sting
Dicono di lui che ha la fantasia di uno scugnizzo e la concretezza di un manager. La Chiesa del Concilio e la forza del sogno. Ma poi Padre Antonio Loffredo è uno che parla con la lingua di Eduardo, un fiume in piena, e non è tanto semplice stargli dietro. Spiega che il suo lavoro è «trasformare le pietre scartate in persone che si innamorano della vita». Per i giornali è quello che ha ridato la sua anima al Rione Sanità. Invece quando Trudie Styler ha deciso di fare un film su Napoli e ha chiesto in giro chi doveva sentire, le hanno detto che lui era la voce della città. Don Antonio. Che è, un prete? «Sono un parroco. Mi chiamassero come vogliono». Ha 64 anni e 20 ne ha passati a far rinascere il rione Sanità. Gli ultimi due, invece, anche con Trudie Styler, l’attivista per i diritti umani, ambasciatrice Unicef e regista inglese, che vive a New York con suo marito Sting e che ha appena presentato al festival di Roma questo suo film documentario, Posso entrare? An ode to Naples. Ora padre Antonio, – chiamiamolo così, va bene? -, dice che «è un canto d’amore per una città di cui lei si è innamorata». Ma le parole che colpiscono di più sono quelle che dice dopo: «È lo sguardo di una amata per il suo amato».
Amata? Cioé, anche Napoli si è innamorata? Di lei?
«Oh sì. È stato un incontro fra due persone che si sono capite subito. Lei ha incontrato a Napoli questa tipica nostra bellezza che ti affascina, ma non ti sazia, di cui continui ad aver bisogno. È questa la ragione per la quale ci ha messo tanto tempo a fare il film. E dall’altra parte non le hanno mai chiesto niente. Le dicevano di entrare, e a volte non sapevano neanche chi era. Non contava. Una donna stava passando l’aspirapolvere, s’è fermata per parlarci assieme come se fosse una parente e poi ha ripreso a pulire il pavimento. Una signora che fa le caldarroste quando gli è morto il figlio ha chiamato lei per piangere e disperarsi. L’hanno sentita una di loro».
Partiamo dall’inizio. Come è nata l’idea?
«Trudie mi ha raccontato che tutte le volte che era stata qui a Napoli l’aveva vista solo dal mare. Ne era attratta, ma non ci era mai entrata. A un certo punto ha pensato che era arrivato il momento di farlo. Alla fine si è smarrita in questa bellezza».
E prima di cominciare l’ha contattata.
«Sì, in tanti le hanno fatto il mio nome. Anche Luciano Stella, il produttore, lo stesso di Nostalgia di Martone. È venuta e mi fa, lo so chi siete, che avete un mucchio di cose da fare. Ma mettetevi tranquillo. Io vi farò un mucchio di volte la stessa domanda. Con calma. Facciamo tutto con calma. È un documentario che dà voce a Napoli. Non l’ho lasciata neanche finire di parlare. Le ho detto: con piacere, ci sto».
E qual è la cosa che le è piaciuta di più di lei?
«Il dono del tempo che ci ha lasciato. È entrata in punta di piedi, con molta curiosità e delicatezza. A me ha fatto venire in mente quel restauro che fanno i giapponesi con un coccio rotto riunendo i pezzi con un filo d’oro. Lei ha fatto la stessa cosa perché con quel filo d’oro ha esaltato le sue ferite, perché Napoli è un coccio rotto. Dalla monnezza può nascere il bello».
È un po’ quello che ha fatto lei al Rione Sanità.
«Io ero parroco di 5 parrocchie con annesse una decina di chiese. Le abbiamo fatte accarezzare dalle pietre preziose, che sono i nostri ragazzi. Noi abbiamo dovuto fare comunità, ci siamo preoccupati di aprire le chiese chiuse, non utilizzate, ne abbiamo fatti centri di cultura, un museo con 30 mila visitatori paganti».
E i giovani si sono innamorati?
«Più che innamorati erano predisposti alla bellezza. Io a scuola ero un pessimo ragazzo, avevo 7 in condotta. La preside disse ai miei: mandatelo a lavorare. Quando ho capito che sbagliavo, mi sono messo a studiare teologia. A Sanità erano ragazzi di strada. C’è uno, Enzo, che aveva lasciato la scuola. Gli ho detto, tu hai la faccia, tu sei fatto per un’altra cosa. Ha studiato l’inglese. L’hanno chiamato in America. Ho paura, mi dice. Ti sto vicino io. Ha preso la laurea. Adesso lo chiamano addirittura in Giappone a tenere lezioni di rigenerazione urbana. Cioè quello che ha fatto qui nel quartiere».
Nel film si parla anche delle lezioni di boxe in una chiesa del Rione Sanità...
«Avevamo sviluppato il teatro, il cinema, l’arte, la cultura, la pittura. A un certo punto i nostri educatori mi dicono: Antò, i ragazzi vogliono fare la boxe. Io: bene, chiamateli. Dico: ci sto, vi do una mano, ma scelgo io i maestri, il resto lo fate voi. Non c’è un posto dove fare il ring. Ho aperto la chiesa che aveva la sacrestia più grande e ho piazzato il ring e la palestra. Poi ho chiamato le Fiamme Gialle, per avere i maestri. E quelli, Antò, ma perché gli sbirri? Quelli sono campioni olimpici, rispondo, ho scelto i migliori. Sì, ma io ho la fedina sporca, rispondevano. Non preoccuparti. Tu impara il pugilato, quello devi fare. Adesso sono diventati amici dei poliziotti e loro li guardano con occhi diversi».
E con Sting come è andata?
«L’ho coinvolto nel progetto di Metamorfosi. Abbiamo recuperato i rottami delle barche dei migranti e i detenuti li hanno trasformati in strumenti musicali. L’orchestra del mare».
E poi?
«E poi guardatelo questo film. È un canto d’amore, ha fatto una gran cosa Trudie. Io per tutta la vita ho cercato di fare cose così, di liberare le anime, di liberare i cuori. Aprire il mio basso e dare la mia casa. È quello che è successo in questo film».