Corriere della Sera, 6 novembre 2023
Un lunga intervista a Corrado Augias
Corrado Augias, lei ha scritto: «La Rai è la mia vita, è la mia casa. Non la lascerò mai». Invece…
«Invece passo a La7. Da lunedì 4 dicembre. Ho ceduto dopo anni al corteggiamento di Urbano Cairo e poi anche del direttore Andrea Salerno. Per il gusto della sfida».
Quale trasmissione farà?
«Un programma settimanale in prima serata: La torre di Babele. Un’ora di tv, dopo Lilli Gruber. Ci sarà uno spirito-guida, un ospite ad alto livello, a cominciare da Alessandro Barbero, e alla fine un personaggio a sorpresa, per tirare le somme».
In Rai lei faceva Babele, e parlava di libri.
«Su La7 parlerò di cultura. Sa cosa fece Fabiano Fabiani, quando Bernabei lo mandò via dalla direzione del telegiornale perché troppo di sinistra? Si fece nominare alla direzione centrale dei programmi culturali, che neppure esisteva. Fabiano, gli dissero, lì non c’è niente. E lui: “C’è tutto, perché tutto è cultura”».
Lei perché lascia la Rai?
«Nessuno mi ha cacciato, ma nessuno mi ha trattenuto. A 88 anni e mezzo devo lavorare in posti e con persone che mi piacciono; e questa Rai non mi piace».
Perché?
«Perché non amo l’improvvisazione. E in Rai oggi vedo troppa improvvisazione, oltre a troppi favoritismi. La tv è un medium delicatissimo. Deve suscitare simpatia, nel senso alto dell’espressione».
Chi sapeva farla?
«Ad esempio Stefano Coletta. Grande uomo di prodotto, che rilanciò Rai3. L’hanno messo in un angolo».
In Rai lei entrò 63 anni fa, nel 1960.
«Con il concorso: quinto su 110. La Rai era una delle eccellenze dell’Italia del boom».
Qual è il suo primo ricordo?
«Il deserto della Libia. Salgo su un cammello, e resto terrorizzato quando si alza sulle gambe posteriori, rischiando di gettarmi a terra».
Cosa ci faceva in Libia da bambino?
«Mio padre Carlo era ufficiale dell’aeronautica. Quando entrammo in guerra, mia madre Emma mi portò in Italia con l’ultimo piroscafo che lasciò Tripoli. Papà era agli ordini di Italo Balbo, e assistette al suo abbattimento nel cielo di Tobruk».
Che idea se ne fece? Ordine del Duce o incidente?
«Mio padre ha sempre detto incidente. C’era stata una tempesta di ghibli, Balbo non avvertì che il suo aereo stava arrivando, fu scambiato per un inglese, le mitragliatrici aprirono il fuoco».
Anche suo suocero, Nino Pasti, padre di sua moglie Daniela, era un ufficiale.
«Pilotava aerosiluranti: scendeva in picchiata verso la nave nemica, lasciava partire due siluri e si risollevava per evitare le mitragliatrici. Quasi un kamikaze. Fu abbattuto, salvato, chiuso in un campo di prigionia in Kenya».
Lei che ricordo ha della guerra?
«Orribile. La fame era tremenda, nel pane trovavi pezzi di legno. Mamma mi lasciava in capo al letto quattro stracci per rivestirmi in caso di allarme aereo, ma a volte scappavo direttamente in pigiama. I rifugi a Roma erano teatri. C’erano quelli che pregavano davanti a un’immagine sacra. C’erano quelli che dormivano. E c’era lo spavaldo, che usciva a fumare proclamando: meglio morire da uomo che da topo».
E suo padre?
«Fu ferito da uno Spitfire inglese a una gamba, rischiava la cancrena, venne rimpatriato. Lo rividi all’ospedale del Celio, tutto nero per il sole e la malattia, magro come un chiodo: quasi non lo riconobbi».
Poi a Roma arrivarono i tedeschi.
«E mio padre si unì alla Resistenza, nel gruppo del colonnello Montezemolo. I nazisti vennero a cercarlo a casa, ma lui non c’era quasi mai: ogni tanto sbucava la notte, passando dal terrazzo sul tetto, ne ho un ricordo sinistro. Fu bellissimo invece quando mi portò a vedere l’ingresso degli americani».
Era il 4 giugno 1944.
«Da Porta Latina, dove abitavamo, andammo sull’Appia Antica. Non dimenticherò mai i carristi neri che tiravano caramelle e gomme da masticare, e i miserabili, che eravamo noi, che le raccattavano. Un giorno di gioia assoluta. Eppure dalla guerra non ci siamo liberati mai».
Perché?
«I nostri giocattoli erano i residuati bellici. Sistemavamo i bossoli sulle rotaie, quando passava il tram in discesa li faceva esplodere come una raffica di mitra, una volta il tramviere ci inseguì con una sbarra di ferro in mano. Oppure prendevamo proiettili di artiglieria più alti di noi, toglievamo la palla, tiravamo fuori la balistite, una sorta di spaghetti neri cui davamo fuoco… Avevamo i botti di Capodanno tutti i giorni».
Pericolosissimo.
«Un mio amico perse l’avambraccio destro per una bomba a mano».
Lei ha radici ebraiche?
«Mia nonna, Antea Anticoli, era ebrea, ma l’ho scoperto tardi, a trent’anni. Per amore si fece cristiana, e divenne ferventissima, per ascoltare Pio XII alla radio si inginocchiava. La sua stanza pareva una tomba, tutta buia, con i lumini e le immaginette. Morì molto anziana, nel sonno. Anche mia madre era cattolica, e mi fece battezzare».
Lei però è ateo.
«Non credente. Anche se si può coltivare una spiritualità intensa senza appartenere ad alcuna religione».
La sua «Inchiesta su Gesù», scritta con Mauro Pesce, ha venduto un milione di copie.
«Tolta dall’assurda mitologia in cui è stata immersa, la figura di Gesù diventa ancora più grande e più bella. Perché la sua doppia sfida, al potere romano e ai sommi sacerdoti, non è più un destino obbligato per redimere con la sua morte il peccato originale; diventa una scelta».
È vero che lei ha fatto il militare con Cesare Previti?
«Sì. Era già un filone: sarcastico, cinico. Con una decina di commilitoni non volevamo andare a messa, e allora ci facevano marciare inquadrati, avanti marsc, sotto il sole. Previti ci guardava dal sagrato sogghignando: “Ecco il plotone Giordano Bruno…”».
La Rai nel 1964 la mandò a New York.
«Il responsabile dei rapporti con l’estero era Gianfranco Zaffrani, un omosessuale alla Gide. Dovevamo organizzare il Premio Italia, lui sapeva che mi interessavo di musica, mi chiese consiglio per il concerto da offrire agli ospiti stranieri. Proposi la fantasia di Schubert a quattro mani. Rispose: “No, siamo a Napoli, facciamo il Pulcinella di Stravinskij, variazioni su musiche di Pergolesi”. Con tutto il rispetto: lei si immagina un dirigente della Rai di oggi dare una risposta così?».
Dicevamo di New York.
«La Rai aveva l’intero piano di un grattacielo sulla Sesta Avenue, il direttore era un ebreo fuggito dalle leggi razziali, George Padovano. Arrivai in nave: otto giorni da Napoli a Manhattan, con mia moglie e nostra figlia Natalia, che aveva un anno e mezzo. I mobili furono imbarcati su un bastimento che finì in balia di una tempesta: li recuperammo a pezzi. Così comprammo un po’ di arredo usato all’Esercito della Salvezza, e un paio di mobili ce li fece un giovane artista che amava il legno: Mario Ceroli».
Si favoleggia di una sua esperienza con i figli dei fiori: tutti nudi.
«Loro erano nudi, cosa dovevo fare? Mi spogliai anch’io. Per intervistarli però, come vede da questa foto, indossai calzoni e bretelle. Giravo l’America, scrivevo per l’Espresso. Raccontai le rivolte nei penitenziari. E scoprii gli hippy».
Com’erano?
«Poveri ragazzi, ingenui, sbandati. Sognavano una parodia di Arcadia, con le caprette e le chitarre. L’odore di marijuana era fortissimo».
Lei l’ha provata?
«Una volta, senza grandi effetti. Un’altra volta ho provato un po’ di cocaina: effetti zero. Forse l’ho inalata male».
E l’amore omosessuale l’ha mai provato?
«L’atto no, la tentazione sì. Amitiés amoureuses».
Amicizie amorose.
«Nelle quali senti che l’altro ti completa».
È vero che seguì la campagna di Bob Kennedy?
«I politici allora erano avvicinabili: una volta a Omaha, Nebraska, presi l’ascensore con lui. Rientrai a New York, Andrea Barbato lo seguì a Los Angeles, e vide il suo assassinio».
Lei tornò in America come corrispondente di Repubblica.
«Nel novembre 1975, prima ancora che uscisse il giornale. Dovevo aprire l’ufficio. Avevo il contratto numero 2».
Com’era Scalfari?
«Un maestro, con due straordinarie qualità. Il talento affabulatorio: teneva l’intera redazione appesa, a bocca spalancata, al racconto di quello che aveva fatto la sera prima. La sintesi: di una situazione ingarbugliata trovava subito il bandolo».
E i difetti?
«A volte, concentrato su se stesso, non capiva gli uomini, sbagliava a valutarli».
Gigi Proietti?
«Abbiamo lavorato insieme da ragazzi. Un superattore. Come Gassman, un tragico in cui quel genio di Monicelli vide il comico. Anche Proietti sapeva fare tutto, da Shakespeare alla chitarra. Il che non è sempre positivo: un attore deve avere il suo profilo, deve essere preciso».
Moravia?
«Sulfureo, irruento, bruscamente affettuoso. Ti scuoteva la spalla, sembrava cercare il figlio che non aveva avuto. Oggi nessuno lo ricorda perché a differenza di Pasolini ha avuto una morte borghese: in bagno, cadendo davanti al lavandino, mentre si faceva la barba».
Lei ha paura della morte?
«No. Ho paura del morire; che è diverso. Non voglio perdere coscienza di me stesso, essere nutrito con una sonda come un vegetale».
È favorevole all’eutanasia?
«Sì. Chi mi ama sa quel che deve fare».
Lei appare così razionale, elegante. Eppure nei suoi libri e nelle sue trasmissioni tv a volte traspare il gusto per il Grand Guignol. Il circo, il sangue, l’horror. Perché?
«Per il motivo che dicevo prima: la guerra dentro di noi non è mai finita. Quando tiravano fuori i morti, bianchi di calce come pupazzi, ne ero spaventato e insieme affascinato, attratto. Avevo uno zio cieco di guerra, intossicato dai gas nelle trincee: non potendo vedermi, mi tastava, “un po’ troppo stretto questo torace!”. Temevo e nello stesso tempo desideravo il momento in cui si sarebbe finalmente tolto gli occhialoni neri, per svelare orbite vuote o pupille sfracellate…».
Cos’aveva lo zio sotto gli occhialoni neri?
«Non lo so. Non se li è mai tolti».
Lei fu tra i fondatori di RaiTre.
«Mi chiamò Angelo Guglielmi, con la sua vocina: “Non abbiamo soldi per fare gli sceneggiati, ma ti darò una trasmissione che sarà il nostro sceneggiato”. (Augias imita perfettamente Guglielmi). L’idea era di Lio Beghin, padovano geniale: contaminare la tv con il telefono. Nacquero così Telefono giallo e Linea rovente, affidata a Giuliano Ferrara».
In tv e nei libri lei ha raccontato tutte le grandi città. Com’è oggi Roma?
«Condannata a un declino irrimediabile. Amministratori impotenti, popolazione riottosa, incivile, indisciplinata. Come si diceva una volta? L’unica città mediorientale senza il quartiere europeo».
Lo diceva Scarfoglio di Napoli.
«Napoli è rinata. Dopo lo scandalo della monnezza ha avuto uno scatto».
Milano?
«L’unica vera metropoli che abbiamo».
Torino?
«Nobilmente decaduta. Mi ricorda il libro Cuore».
Venezia?
«Mi ricorda invece Morte a Venezia di Thomas Mann. Una città senza bambini è destinata a decadere».
Bologna?
«Fosca di portici, torri, guglie. La città più medievale d’Italia. La adoro».
Palermo?
«In Sicilia sento forte il senso della morte».
Londra?
«Mi piace, anche perché ormai è la città dei miei affetti, dove si sono formati i miei nipoti».
Ne ha tre.
«David, 31 anni, è criminologo. Insegna a Oxford, si occupa dei migranti, è andato a piedi dalla Siria a Trieste, ora è tornato a Damasco. Poi ci sono i gemelli: Micol, che segue un corso di specializzazione in management a Parigi, e Marco, che a Londra fa il cuoco».
New York?
«Troppo convulsa e violenta».
Parigi?
«La mia seconda patria. Anche se invecchiando amo di più la nostra Italia. Ho visto il film con Favino, Comandante, e mi ha commosso. Che errore ha commesso la sinistra regalando la patria ai fascisti!».
Gerusalemme?
«Con Roma, l’unica città del mondo antico che non è mai morta».
È vero che ha vissuto in un kibbutz?
«Per tre mesi, con un amico, a Ma’agan Michael, presso Haifa: frutteti, datteri, aranci in riva al mare. Un paradiso terrestre».
Cos’è per lei Israele?
«Il confine tra ebreo e israeliano, tra la comunità ebraica e Israele, è così sfumato, da creare un pericolo enorme. Se qualcuno vuole discutere sugli errori di Israele, sono pronto. Ma se qualcuno vuole discutere sull’esistenza di Israele, non sono interessato; perché per me è sacra».
Due popoli due Stati?
«Oggi purtroppo è quasi un’utopia, a causa dei 700 mila coloni insediati in Cisgiordania per volontà di Netanyahu».
L’hanno accusata di aver lavorato per i servizi cecoslovacchi, nome in codice Donat.
«Una millanteria di un agente che voleva restare a Roma. Usciti dalla Rai di via del Babuino, andavamo da Rosati a bere qualcosa. C’era questo cecoslovacco molto simpatico, che mi invitò due volte a pranzo e mi chiedeva della politica italiana. L’infido traditore fece credere di avere una fonte dentro la Rai».
L’hanno accusata anche di plagio.
«Commisi, per la prima e ultima volta, l’errore di chiedere a un giovane ricercatore un po’ di materiale per un libro. Quello copiò otto righe di un volume Adelphi appena uscito. Erano talmente belle che le riportai integralmente. Una macchia sulla camicia bianca, che fu sfruttata politicamente dai miei detrattori».
Come trova la Meloni?
«Intelligente e prigioniera».
Di chi?
«Del suo passato. Credo che lei vorrebbe davvero costruire un partito conservatore, ma non le riesce, per colpa dei camerati che la bloccano con cento impacci. Per Giorgia non ho simpatia politica, ma ho simpatia umana. Ha un cattivo carattere, che l’ha aiutata ad arrivare fin lì, ma ora rischia di perderla. Dovrebbe reprimerlo».
La Schlein?
«Non vorrei parlare della sinistra. Che fine ha fatto quella forza che l’ha animata per mezzo secolo? Sembra evaporata».
Craxi?
«All’inizio fu un sollievo. Mi piaceva il suo disegno politico, distinguersi tra le due chiese democristiana e comunista. Poi divenne Craxi e non mi piacque più. Come Renzi: all’inizio mi persuase la sua idea di superare il bicameralismo; poi l’egolatria lo ha perduto».
Berlinguer?
«Mi piaceva, anche fisicamente. Lo trovavo bello, simpatico. E, lui sì, parlava di patria».
Berlusconi?
«L’ho detestato. L’Italia non aveva certo bisogno del suo cattivo esempio. Ricordo una sua visita alla scuola della guardia di finanza. Raccontò una barzelletta: “Bussano alla porta, chi è? Rapinatori! Meno male, temevo fossero i finanzieri”. E i futuri finanzieri risero».
Andreotti?
«Diabolus. Intelligenza mefistofelica. Affascinante nel male».
Nella Prima Repubblica lei cosa votava?
«Quand’ero all’università sono stato iscritto al partito socialista, fui pure segretario della sezione teatro, quando da Milano a Roma, da Paolo Grassi a Vito Pandolfi, tutti i grandi teatri italiani erano guidati da socialisti».
Esistono gli italiani?
«La nostra identità nazionale è molto fragile. Siamo un Paese troppo lungo, come diceva Giorgio Ruffolo, con una frontiera interna, gli Appennini. Non solo Nord e Sud; anche solo Firenze e Bologna, che distano appena cento chilometri, sono troppo diverse per capirsi».
Lei ha una memoria prodigiosa, non ha perso un capello…
«…Mangio e bevo poco, sono stato in palestra stamattina…».
Qual è il segreto della longevità?
(Corrado Augias tocca il tavolino di legno e accenna un altro gesto apotropaico). «La serenità. Conosco colleghi bravissimi ma invecchiati male, rancorosi, in credito con il mondo. Io sono una persona serena. Non invidio, non desidero. Prendo quello che viene, non rimpiango quello che non è venuto e non verrà».
Non ci credo che lei, come Jones il suonatore, non abbia neppure un rimpianto.
«Uno c’è. E riguarda appunto la musica. Avrei voluto essere un grande pianista. Ma non ci sono riuscito».