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 2023  novembre 05 Domenica calendario

Andy Summers diventa scrittore


La prima chitarra ha iniziato a suonarla da bambino, per meno di dieci anni lo ha fatto in una delle band più influenti della storia del rock, i Police, marcando con i suoi riff pezzi leggendari (So Lonely, Roxanne, Regatta de Blanc, Message in a bottle). Ma già prima di incontrare Sting e Stewart Copeland, Andy Summers – classe 1942, ormai losangelino d’adozione – si era già fatto le ossa con Soft Machine, Animals, Kevin Ayers. Che fosse anche un bravo fotografo si sapeva. Ma il suo talento di scrittore, invece, era ancora sconosciuto al pubblico italiano. È appena stato tradotto il suo primo libro di finzione (Giù di corda. Racconti fuori tempo, Sagoma editore). Protagonisti musicisti e band immaginari – Deaf Mutes, Grubs, Dangling Modifiers, Only Child – ma con riferimenti non troppo difficili da riconoscere, scanditi da un umorismo molto british. E, soprattutto, da tantissime chitarre: Gibson, Guild D-50, Fender, Stratocaster, Les Paul. Le vere star. Che conosce bene, avendole suonate tutte.
Musicista, compositore, fotografo, scrittore, anche regista. Chi è Andy Summers?
«Mi sento prima di tutto un chitarrista: la musica è stata e è la mia vita. Ma scrivo da sempre, lo facevo già ai tempi dei Police, piccole storie che però tenevo per me. Dopo questa sto scrivendo un’altra raccolta di racconti, The Trouble with Guitars».
È in tour con «The Cracked Lens. A Missing String». Di che si tratta?
«È uno show multimediale, cerco di mescolare fotografie, musica, parole. Mi piacerebbe portarlo anche in Italia. Suono la chitarra, pezzi miei, canzoni brasiliane, improvvisazioni, anche brani dei Police che ho riarrangiato. Le foto sono quelle che ho scattato nei miei viaggi: India, America, Giappone».
Ha fatto 60 mostre, suonare non le bastava?
«Sono stato influenzato da Fellini, Truffaut e Godard. Era un modo di esprimermi speculare alla musica, come la scrittura. Diversi modi di raccontare storie».
Nel libro ringrazia molte persone, compresi Sting e Copeland. In che rapporti siete?
«Buoni. Abbiamo condiviso una parte di vita importante, c’è una sorta di fratellanza tra di noi che ci unisce al di là della frequentazione».
Passione
«Scrivo da sempre,
lo facevo già quando suonavo con Sting. Mi tenevo tutto per me»
I fan sognano un’altra vostra reunion.
«Quella del 2006 fu complicata da mettere insieme ma fu un grande successo. Siamo ancora tutti e tre attivi, suoniamo, quello che conta è che la musica dei Police sia sempre viva. I giovani l’ascoltano, continuiamo a vendere dischi, è incredibile».
Avete iniziato nel 1977 e vi siete sciolti definitivamente nel 1986. Sei album, 75 milioni di copie vendute, una band leggendaria. Qual è stato il segreto?
«Credo fosse l’autenticità, la mescolanza di generi e la nostra competenza musicale. Un’alchimia unica. Un trio perfetto: basso, chitarra, batteria. Erano gli anni del punk, noi siano stati decisamente new wave».
A cavallo tra passato e futuro.
«È stato un periodo d’oro per la musica e noi eravamo al top. Portandoci dietro le nostre influenze: Miles Davis John Coltrane, su cui mi sono formato, il jazz rock che anche Sting amava molto, la ritmica di Stewart. Ci ha unito la musica. Quando ci siamo sciolti eravamo ancora al massimo della creatività».
Di quale vostra canzone va più fiero?
«Message in a bottle. Musicalmente è più complessa di quanto non appaia, difficile da suonare, il riff di chitarra è particolare, e porta una carica di emozione che mi sembra ancora intatta. La conoscono anche i giovani. E io ci chiudo il mio show».