Corriere della Sera, 5 novembre 2023
Intervista a Francesco Giorgino
Francesco Giorgino, a volte ritornano.
«Dopo sedici mesi di assenza, tanti sono passati dall’addio al Tg1, torno in tv».
Com’è stato andarsene dal Tg1?
«Doloroso, parliamo di trent’anni della mia vita. Ma prima o poi poteva capitare».
Non è capitato nel modo migliore, almeno a leggere i retroscena sulle tensioni con la direttrice Maggioni.
«A luglio dell’anno scorso mi è stato comunicato che non avrei più condotto l’edizione delle 20. Insieme all’azienda, poi, abbiamo trovato delle soluzioni che mi hanno permesso di diventare direttore e conduttore di programmi».
La direzione è quella dell’ufficio studi della Rai.
«Un lavoro molto appassionante, che conserverò anche quando sarò in onda con XXI Secolo».
Dica la verità: l’ennesimo talk show?
«No. XXI Secolo sarà un programma di approfondimento nel senso strettissimo della parola. Un tema lo affronteremo facendo data journalism, quindi partendo dalle evidenze empiriche dei dati, e poi con un’intervista a un politico di alto livello o a un dirigente d’azienda di quelli che rappresentano il nostro Paese all’estero. In chiusura di puntata, ci sarà un faccia a faccia sul futuro con un grande nome del mondo della cultura o dello sport».
Ogni lunedì, dal 20 novembre, Rai1. Già terrorizzato per gli ascolti?
«Sappiamo già che un programma che punta a essere innovativo, nella forma e nei contenuti, ha bisogno di tempo. E comunque non sono terrorizzato, anzi. Primo, perché il gradimento del pubblico non si misura solo con l’Auditel; secondo, perché per il pubblico di Rai1, dopo trent’anni di Tg1, sono un volto di casa».
Com’era arrivato al giornalismo?
«Mio papà desiderava per me un futuro da pubblico ministero. E questo era già abbastanza singolare, considerando che lui fa l’avvocato. Ricordo che diceva spesso “sai, ti vedrei bene con la toga indosso”. Pubblico ministero o comunque un futuro da giurista».
E lei?
«Da quando avevo messo piede dentro Telesveva, la televisione locale di Andria, avevo già deciso che avrei fatto il giornalista. Da neo-laureato in giurisprudenza, nel 1989, partecipai come addetto stampa ai lavori di un grande convegno sulla riforma del Codice di procedura penale che si svolgeva a Rosa Marina, visino Ostuni. C’era anche il presidente emerito della Repubblica Giovanni Leone, il nume tutelare degli accademici di procedura penale. Guardando il contesto e il livello di quelle personalità che avevano raggiunto la Puglia per il convegno, tutta gente che stava a Roma, capii che per fare le cose sul serio bisognava andare là, a Roma. Soprattutto per fare il giornalista».
E una volta a Roma?
«Grazie a Enzo Binetti, un deputato dc pugliese, iniziai a lavorare al dipartimento Stato e istituzioni della Democrazia Cristiana, dove studiavo la riforma dei sistemi elettorali dei componenti togati del Csm, e anche a collaborare con il Popolo e la Discussione. Feci amicizia con Enzo Carra, che era il capo ufficio stampa del partito con Arnaldo Forlani segretario».
E la Rai?
«Riuscii a ottenere un colloquio con Bruno Vespa, allora direttore del Tg1».
Come andò?
«Mi fece fare una prova di stand-up, come se fossi un inviato. Feci come mi disse: mi misi in piedi e iniziai a parlare davanti a lui».
Responso?
«Mi disse “vai bene ma si sente troppo l’accento pugliese, ti serve subito un corso di dizione”».
E lei?
«Mi precipitai a fare un corso di dizione, ovviamente a mie spese».
Primo lavoro in Rai?
«A Unomattina. Il primo servizio lo ricordo benissimo. Avevano immaginato una serie di reportage dai luoghi della fede e a me venne assegnata Lourdes. Stiamo parlando del 1991».
E poi?
«Due anni dopo, e siamo al 1993, il direttore del Tg1 Albino Longhi mi spedisce alla chiesa di San Giorgio al Velabro appena colpita dall’attentato della mafia. Non avevo neanche idea della zona di Roma in cui si trovasse la chiesa, men che meno come fosse fatta, forse addirittura non l’avevo mai sentita nominare, comunque non la conoscevo; di colpo, decido di trasformare la mia curiosità in curiosità del pubblico. C’era un’edicola vicino, comprai una guida turistica illustrata e mostrai in tv com’era prima e com’era diventata dopo la bomba. A Longhi quell’idea piacque tantissimo».
Nel 1994, però, la mandano via.
«Non mandano via me personalmente ma tutti quelli che avevano un contratto a tempo determinato, per decisione del consiglio d’amministrazione dei cosiddetti Professori. Era appena arrivato il primo governo Berlusconi e il neoministro per il Commercio estero Giorgio Bernini, papà della futura ministra Anna Maria, mi fece un colloquio. Prima, seconda, terza e quarta domanda, tutte in inglese. Prima della quinta mi viene il dubbio: “Ministro, lei cerca un portavoce o un interprete?”».
Esperienza formativa?
Le bombe e il direttore
Longhi mi spedì a S. Giorgio al Velabro dopo l’attentato della mafia Presi al volo una guida
e mostrai in tv com’era prima. L’idea al direttore piacque moltissimo
«Un modo di vedere dall’interno come funzionava il Palazzo. Berlusconi veniva spesso a trovare noi addetti stampa e seguiva la comunicazione in prima persona: “Allora, ragazzi, che cosa state comunicando oggi?”».
Finito il governo dopo il ribaltone di Bossi, lei ritorna in Rai. È vero che fu proprio Berlusconi ad aiutarla con Giulio Borrelli a fare carriera al Tg1? Si tramanda di un Cavaliere che, incrociandolo, gli disse: «Direttore, ma questo ragazzo vogliamo farlo lavorare?».
«Non è vero. Borrelli mi stimava molto. Un giorno mi chiamò per comunicarmi che mi avrebbe portato alla conduzione del Tg delle 13 dopo che per un agosto intero avevo guidato la redazione della cronaca da solo, con tutti i capi in ferie. Quando squillò il telefono ero davanti a un pescatore che stava sbattendo un polpo sullo scoglio, a Bari. Ho ancora la scena davanti: la voce di Borrelli al telefono, il pescatore, lo scoglio, il polpo, tutto assieme».
Dicono di lei che è stato la longa manus del centrodestra al Tg1.
«Senta, per diventare vicedirettore del Tg1 ci ho messo trent’anni, dal 1991 al 2021, attraversando vertici aziendali espressione dei governi più diversi. Non uno, non cinque, non dieci: trenta, e questo senza saltare neanche un gradino della gerarchia. Un po’ tanti per un raccomandato, non crede?».
Che è stato un berlusconiano di rango.
«Da capo della redazione politica del Tg1 ho attraversato le fasi più cruente del dibattito pubblico, con conflitti rimasti nella storia della Seconda Repubblica, da Berlusconi contro Fini a Renzi contro Bersani. Sa in quanti si sono lamentati di me, in quanti hanno mandato alle agenzie una dichiarazione contro o presentato un’interrogazione parlamentare? Nessuno, neanche uno. Mai nessuno ha avuto nulla da eccepire sul lavoro del sottoscritto».
Che è un adulatore.
«Io ho un grande rispetto per le istituzioni. In questo, se si può parlare di stile, ho uno stile da democristiano. Ma essere rispettoso nei confronti delle istituzioni e di chi le guida pro tempore vuol dire essere adulatore?».
Prima di Maggioni aveva litigato anche con un altro direttore, Clemente Mimun, che la sospese dopo che lei aveva scritto in un libro che in quel Tg1 si infilavano nei servizi applausi finti.
«Non si può piacere a tutti».
Ma la storia degli applausi finti?
«La mia risposta è e rimane: non si può piacere a tutti».
Vendicativo?
«Non so che cosa sia la vendetta, non c’è nel mio vocabolario».
Rancoroso?
«Due parole non sono nel mio vocabolario: vendetta e rancore».
Nella tolda di comando del Tg1, chissà quante telefonate di lamentele avrà ricevuto.
«Neanche troppe. E comunque sempre relative allo spazio riservato ai partiti, mai al merito di come le notizie venivano date».
Si lamenta più la destra o la sinistra?
«Quand’è capitato è successo in egual misura, mi creda».
Amici politici?
«Conoscente di tanti, amico di nessuno».
Amici giornalisti?
«Idem, ne conosco e ne stimo tanti ma non ne frequento. Vede, io mi sveglio presto, leggo i giornali, vado a Viale Mazzini all’ufficio studi della Rai, poi alla redazione che sta lavorando a XXI secolo; nel pomeriggio ho una cattedra alla Luiss e la direzione di un master, sempre là. La sera leggo e studio, non frequento salotti».
Dovrà un grazie a qualcuno?
«Ora che ci penso sì, a me stesso. Per fare questo lavoro ho sacrificato moltissimo della mia vita privata».
Si vede fuori dalla Rai?
«Io sono un uomo Rai. Un aziendalista in senso non stretto, strettissimo».
Si vede fuori dal giornalismo?
«Dopo l’esperienza al Dopofestival di Sanremo, vent’anni fa, in azienda mi proposero di passare a quello che chiamavano “il light entertainment”. In ballo c’era anche la conduzione di un programma quotidiano di intrattenimento. Sa che cosa significava, tra le altre cose?».
Che cosa?
L’intrattenimento
Finito il Dopofestival di Sanremo mi proposero un programma di intrattenimento. Avrei guadagnato molto di più, ma rifiutai: non mi vedo senza giornalismo
«Guadagnare molto, molto, molto, ma molto di più. Fu per questo, forse, che mi presi una notte per pensarci».
E poi?
«Dissi di no. La mia vita senza il giornalismo non la vedevo allora e non la vedo neanche oggi».