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 2023  novembre 05 Domenica calendario

Intervista a Mario Mori

Generale Mario Mori, nella prefazione al suo libro di memorie in uscita,M.M. Nome in codice Unico,Giovanni Negri la accosta a Enzo Tortora come vittima simbolo della malagiustizia, per i due lunghi processi, mancata perquisizione del covo di Totò Riina e trattativa Stato-mafia, da cui è stato assolto in via definitiva. La convince il paragone?
«Non completamente. Nel caso di Tortora ci fu una lunga catena di errori dei magistrati, cui bastarono le parole di alcuni presunti pentiti. Il mio è un caso diverso, quasi tutti i magistrati che si sono occupati del mio caso hanno agito per convinzione».
Con il “quasi” a chi si riferisce?
«A chi ha dimostrato di agire per pregiudizio ideologico e magari dopo si è anche candidato in politica».
Cioè Antonio Ingroia. Restano i fatti: fu o no un errore non perquisire il covo di Riina dopo il suo arresto?
«Ne discutemmo in una riunione tra carabinieri e magistrati. Il capitano Ultimo suggerì di non perquisire per continuare l’osservazione e io ero d’accordo. La decisione comportava dei rischi, ce li assumemmo. Poi l’indirizzo del covo fu bruciato da un ufficiale dei carabinieri cui scappò una battuta con i giornalisti».
Nessuna autocritica?
«Non dico che tutta la ragione stia dalla parte mia e il torto da quella degli altri. Quel che mi dispiace è che le sentenze di assoluzione hanno valore giuridico ma non di convinzione: per molti io resterò quello che ha fatto la trattativa con Ciancimino».
Vito Ciancimino, mafioso ed ex sindaco democristiano di Palermo.
«Combattere la criminalità organizzata non è come arrestare i ladri di polli. Con pericolo personale andai a proporre a Ciancimino di collaborare e di parlare con i capi mafia per convincerli a consegnarsi.
Come sempre in questi casi, offrivamo garanzie sul trattamento delle famiglie».
Lei scrive che la chiave per comprendere la strage in cui morì Paolo Borsellino sta nell’indagine mafia e appalti, poi rapidamente insabbiata dopo la sua uccisione.
«Il procuratore capo di Palermo Giammanco telefonò la domenica mattina a Borsellino, poche ore prima dell’attentato a via D’Amelio, per comunicargli che gli affidava le indagini sulla provincia di Palermo.
Strano, no? Non poteva dirglielo il lunedì in ufficio?».
Di cosa accusa Giammanco?
«Giammanco è morto nel 2018, ci sono stati molti anni per sentirlo e chiedergli ragione di tante cose. Non è stato fatto. È una constatazione prima che un’accusa».
Che c’entra Tangentopoli con le stragi di mafia?
«C’era un filo nelle indagini sulla corruzione tra Milano e Palermo.
L’imprenditore Antonino Buscemi, pezzo grosso di una delle famiglie piùimportanti di Cosa Nostra, aveva comprato la Calcestruzzi dal gruppo Ferruzzi».
Sta dicendo che Gardini si suicidò perché temeva l’emersione di legami del suo gruppo con la mafia?
«Penso di sì».
Fu Berlusconi a volerla capo del Sisde.
«Prima mi telefonò Gianni Letta».
Di cosa parlavate con Berlusconi?
«L’intelligence non era la sua materia preferita».
I politici più stimati?
«Cossiga, Pecchioli e, in tempi più recenti, Minniti. Gente che sa cos’è l’intelligence».
E Craxi?
«Pagò Sigonella e la ribellione agli americani. Lì cominciò la sua fine».
Negli anni Novanta da capo del Ros guidò l’inchiesta sui fondi neri del Sisde che mise in imbarazzo il capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro.
«Non ci furono condanne ma le sentenze dimostrarono che tutti gli ex ministri dell’Interno, tranne Amintore Fanfani, avevano percepito cento milioni al mese dal Servizio.
Mancavano le prove sull’utilizzo personale di quei fondi».
Ha citato Pecchioli, il ministrodell’Interno ombra del Partito comunista. Lei racconta di aver assistito a un incontro tra lui e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel quale fu decisa l’infiltrazione di un giovane del Pci nelle Br.
«Era la fine del 1979. Fui testimone silente di un dialogo che in alcuni momenti fu condotto quasi in dialetto piemontese. L’infiltrato aveva nome in codice “Fontanone”, mai conosciuto né visto. Pecchioli chiese come unica condizione che fosse infiltrato e poi esfiltrato, come poi accadde. Ci aiutò a smantellare mezza colonna romana delle Br».
Com’era lavorare con Dalla Chiesa?
«Uomo straordinario. Nei modi, generale piemontese dell’Ottocento, freddo. Nei metodi investigativi, avanti di almeno vent’anni».
La morte di Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia, fu voluta anche da altri?
«Questo non lo credo. Fu lasciato troppo solo, certo, ma purtroppo il generale aveva un po’ abbassato la guardia. Lo vidi pochi giorni prima della sua uccisione. Aprì il portafoglio e mi mostrò una foto della moglie. Non era un gesto da lui».
Lei sul caso Moro è in controtendenza: non crede a
dietrologie e teorie del complotto.
«Moro fu ucciso dalle Br. Su Mario Moretti, capo delle Br all’epoca del sequestro, girano molte leggende, ma era un brigatista. Non è lui la figura ambigua. Invece ho sempre considerato un brigatista anomalo Giovanni Senzani. Ecco, su di lui ho dei dubbi».
Lei è stato capitano del Sid, quando il Servizio era inquinato da massoneria e lotte intestine.
«C’era una guerra tra il generale Vito Miceli, fedele a Moro, e il generale Adelio Maletti, che sosteneva di rispondere a Giulio Andreotti. Moro chiedeva di aiutare la dissidenza democratica in Grecia. E Maletti aiutava i colonnelli fascisti. Scrisse su di me una relazione di servizio nella quale mi abbassò il giudizio. Io gli dissi: “Risponderà delle sue azioni”.
Lui mi ripose: Può essere, intanto te la prendi nel culo”. Di lì a non molto fu arrestato e condannato».
I Servizi deviati.
«L’espressione non mi piace. Deviate erano alcune persone che agivano per interesse personale».
E la P2?
«Bisogna distinguere. I vertici, Gelli e Ortolani, avevano un disegno politico. La maggior parte degli iscritti cercavano solo avanzamenti di carriera e benefici economici».
Lei è stato involontario motore del cosiddetto lodo Moro, l’accordo allora segreto tra il nostro Paese e i gruppi palestinesi per evitare attentati sul territorio italiano.
«Catturammo una cellula di terroristi palestinesi a Ostia nel 1973. La loro liberazione concordata con George Habash, capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, fu la base del lodo Moro. Ma io questo allora non lo sapevo. Gli israeliani si vendicarono subito».
Parla della caduta dell’aereo Argo 16 in uso ai Servizi?
«Era l’aereo che aveva accompagnato a Tripoli i palestinesi liberati. Non ci sono prove che siano stati gli israeliani, ma forti sospetti sì».
L’Italia ha cambiato linea sul conflitto israelo-palestinese?
«Noi avevamo in Medio Oriente uno dei più grandi uomini di intelligence, il colonnello Stefano Giovannone, uno capace di avere buoni rapporti tanto con l’Olp quanto col Mossad».
In cosa era specializzato da operativo dei Servizi?
«Azioni cosiddette di penetrazione.
Una volta mi sottrassi, i vertici del Sid mi avevano chiesto di entrare nella stanza d’albergo dove alloggiava un magistrato che stava facendo indagini sul Servizio. Resto orgoglioso del rifiuto».
L’intelligence migliore nel mondo?
«Quella inglese. Ci si entra a 27-28 anni e, se sei bravo, ne esci direttore. Da noi ormai si arriva ai vertici solo perché si indossa la stessa maglietta politica di chi ti nomina».
E l’intelligence italiana?
«Siamo bravi nel controspionaggio, molto meno nello spionaggio».