il Giornale, 5 novembre 2023
Due brutti libri di McCarthy
L’attesa degli ultimi libri di Cormac McCarthy, scritti in lotta con l’avvicinarsi della morte, è stata così forte – almeno da noi – da sfidare una pandemia e diverse guerre. Ed è naturale che – nonostante le avvertenze di alcuni critici – gli adoratori del grande scrittore si siano gettati su Il passeggero e su Stella Maris come su due miniere d’oro. La corsa all’oro è una buona metafora per definire l’opera di McCarthy. Noi lo abbiamo amato perché questa corsa è quella di noi tutti, e lui l’ha raccontata in modo più chiaro e persuasivo di tanti altri, ed è per questo che lo amiamo, perché non nega la crudeltà ma non nega nemmeno la speranza, perché nella storia trionfa il male ma il senso di tutto non è nella storia. Da Meridiano di sangue a Non è un paese per vecchi, passando per la Trilogia (Cavalli selvaggi, Oltre il confine, Città della pianura), grazie a personaggi straordinari, McCarthy documenta lo sgretolamento e la fine di un mondo buono, fondato sulla democrazia (toquevilliana) fondata a sua volta sulla religione, che ha generato leggi, pensieri e sentimenti comuni, ma che non ha retto all’urto del Tempo. Al tempo stesso, non tutto può essere distrutto: perfino ne La strada, perfino in Sunset Limited il nulla trionfa nelle logiche della storia, ma non nella dimensione dell’Essere. Lì, la speranza rimane. Per questo in tanti ci siamo riconosciuti in lui, nella sua prodigiosa capacità di documentare l’infinita ricchezza del mondo visibile (quello che noi non vediamo), di descrivere quel complesso concerto che noi chiamiamo «esperienza umana», accettando come parte del corredo anche una certa sentenziosità, che non di rado ha appesantito il suo racconto. Se Tolstoj è stato il nuovo Omero, possiamo dire che, fatte le debite proporzioni, McCarthy è stato il nuovo Euripide. Ma, detto questo, occorre anche ricordare che i testamenti spirituali non esistono. I nostri discorsi verranno lasciati a metà, tale è la nostra condizione. Manzoni, nella sua divina ironia, liquida ogni testamento nelle poche parole con le quali Lucia, alla fine del Romanzo, riassume il succo di tutta la vicenda; dopo di che, dedica le sue energie alla colonna infame, all’ingloriosa storia. La letteratura documenta le nostre domande, senza esibire risposte: suo oggetto – individuale o collettivo che sia – è il dramma del vivere, in tutte le sue declinazioni. Di qui il mio invincibile disappunto per gli «oh» e gli «ah» che hanno accompagnato, da parte dei devoti, due bruttissimi libri come Il passeggero e – peggio – Stella Maris. Due libri che nessun editore si sarebbe sognato di pubblicare se il nome dell’autore fosse stato un altro. Presentati l’uno come il seguito dell’altro, sono in realtà libri diversi, titolari di due diverse forme di bruttezza. Posso nutrire qualche indulgenza per Il passeggero, dove lo scrittore tenta un romanzo impossibile a partire da un simbolo incompatibile con qualsiasi narrazione, un simbolo più estremo delle figurazioni apocalittiche che dominano le pagine de La strada: quello di un aereo precipitato e affondato vicino alla costa, da cui un passeggero è riuscito a fuggire anche se l’aereo risulta perfettamente chiuso dall’interno. In altre parole: una metafora impossibile e, insieme, una metafora dell’Impossibile. E cosa è impossibile? Che arrivino i marziani?, che si risveglino i dinosauri? No, impossibile è la speranza, impossibile è ciò di cui abbiamo vera necessità. McCarthy pensa di poter imbastire un romanzo su questo presupposto, ma il romanzo frana, la storia non procede, i personaggi non sono mai all’altezza, il trucco si scopre come un rivestimento sollevato dal vento e dagli anni. Restano frantumi, frammenti splendidi, frasi o pezzi di dialoghi da ricopiare, ritagliare, inserire in qualche biglietto di Natale o cioccolatino alla nocciola. Per i cacciatori di belle frasi Il passeggero è una miniera. Così come lo è Stella Maris, che è più irritante perché qui lo scrittore non fa nessun tentativo di imbastire un romanzo, anche se un labilissimo filo si può forse scorgere nell’ombra di certe risposte, di certi scatti, di certe incongruenze. Come i più sapranno, Stella Maris è costituito da una serie di conversazioni nella casa di cura «Stella Maris» tra uno psichiatra e Alicia Western, protagonista anche del libro precedente. Alicia dovrebbe essere una specie di genio della matematica, ma a parte la difficoltà oggettiva di mettere in scena la genialità di un genio (ne so qualcosa), quello che è certo è che solo dentro un romanzo vero il destino – incluso quello di un genio o quello di un demente – acquista una sua riconoscibilità. È nel romanzo, ossia nella forma realizzata, che prendono corpo il buono e il cattivo, lo stupido e l’intelligente, l’onesto e il malvagio. Così della geniale e bellissima Alicia Western resta una cretinetta saputella, antipaticissima, che parla di scienza, musica, filosofia come una prima della classe di liceo scientifico, incarnando (se così si può dire) tutto un simbolismo residuale (cacciate dalla Storia, la bellezza e la speranza possono sposare soltanto la follia e i suoi non-luoghi) ma senza quell’incrinatura che solo l’immensa difficoltà di un vero racconto può conferire, dando realtà e spessore alle parole, che altrimenti restano vuote, a dispetto di tutta la loro intelligenza. Oggi più che mai è evidente che il Destino non si dà senza i corpi. La nostra anima prova strazio di fronte al dolore di corpi uccisi, decapitati, sgozzati, dilaniati. Sono anime, certamente, ma la pietà nasce perché queste anime vivono tutta la miseria, il dramma spesso insolubile, la tragedia dei corpi. Anche il romanzo è un corpo, e le anime che lo abitano acquistano spessore e forza dentro questo corpo, proprio perché è un corpo.