il Giornale, 4 novembre 2023
Lettere di Italo a Chichita
Su Italo Calvino, nato cento anni fa (il 15 ottobre), si è detto e letto di tutto. Ma come accade con i classici, ha sempre qualcosa da dire. La sua voce, inedita, la possiamo ascoltare ora in un gruppo di lettere che scrisse a Esther Judith Singer, detta «Chichita», pubblicate per la prima volta dalla loro figlia, Giovanna Calvino (Italo Calvino, Lettere a Chichita, 1962-63, Mondadori).
Chi era Chichita? vi chiederete. Era una donna affascinante, raffinata, curiosa. Nata a Buenos Aires nel 1925, era una giovane traduttrice che lavorava per organismi internazionali come l’Unesco quando conobbe Calvino, a Parigi, in occasione di un ciclo di incontri letterari. Era il 1962. Due anni dopo si sposarono a La Havana, in un ufficio notarile di Calle Obispo, con brindisi nel bar della piscina dell’Hotel Avana Libre. Lei aveva già un figlio, Marcello, avuto da una relazione precedente. Da Calvino, nel 1965, ebbe Giovanna. Italo morì nel 1985, lei nel giugno 2018, dopo aver curato e diffuso per anni l’opera di Calvino nel mondo.
Ed eccoci all’oggi. Giovanna ha deciso di rendere pubblico il carteggio (le lettere scritte da Italo ma soltanto una da Chichita) che è soprattutto una splendida testimonianza dell’amore di Italo, più che verso la donna che sarà sua moglie, verso se stesso. Sono lettere di lavoro, non di passione (con qualche eccezione: «il calore estivo e la lontananza prolungata da te mi tengono in uno stato di desiderio phisicoespiritual tan agudo que no lo puedo exprimir si non in forma metaphoricotrascendental de intensidad de pensamiento oppure in forma di ululato: uuuuuuuuuuuuu!...»). Calvino perlopiù parla di sé, di cosa sta leggendo, di cosa sta scrivendo, dell’Einaudi (un assillo), dei suoi progetti, del rapporto fra letteratura e impegno e dei dubbi che lo tormentano (la figlia Giovanna nell’introduzione dice che il carteggio è l’autoritratto del padre per la sua interlocutrice ideale), dei suoi spostamenti fra Sanremo (il luogo dell’infanzia), Parigi (la Ville Lumière, illuminista e intellettuale) e Roma, che ama molto poco.
Nota a margine. Sono lettere del tutto diverse da quelle che Calvino dedicò all’attrice Elsa De Giorgi, con la quale ebbe una relazione a metà degli anni ’50 e che, a giudizio dei pochi che le hanno potute sfogliare (sono conservate nel Fondo Manoscritti di Pavia, e per ora non si possono pubblicare), rappresentano il più bel carteggio d’amore del nostro ’900.
Comunque, per ora godiamoci le lettere a Chichita, la donna che segnò uno dei tre appuntamenti della vita di Calvino (gli altri due sono la partecipazione alla Resistenza e l’ingresso nella casa editrice Einaudi). Fra notazioni logistico-burocratiche (Calvino ha un gran daffare a pianificare weekend, viaggi e incontri con Chichita, fra visite agli amici a St. Tropez, vacanze di Natale a St. Moritz, yacht e sciate da una parte e appuntamenti di lavoro dall’altra, a dimostrazione che si possono coniugare le battaglie antifranchiste con i piaceri mondani) e referti anatomo-patologici (a un certo punto viene ricoverato per una fastidiosa operazione), lo scrittore racconta a Chichita glorie e bassezze dell’ambiente culturale che frequenta. Esempi. Il 7 maggio 1962 si lamenta di quello che è accaduto a Formentor, sull’isola di Maiorca, in Spagna, dove in quegli anni si assegna un prestigioso premio letterario cui Calvino partecipa come rappresentante dell’Einaudi: è scontento perché «è stato premiato il manoscritto peggiore di tutti, sostenuto da Moravia (l’autrice è una bellissima giovane) e credevamo che nessuno si lasciasse convincere, e invece...». E invece alla fine vince proprio la preferita di Moravia. Calvino non fa il nome, ma basta andare a vedere l’albo d’oro del premio «Formentor de las Letras», anno 1962. Lo vinse Dacia Maraini...
Calvino ne ha per tutti: «La fatica di stare insieme a persone ognuna con la sua parte di pazzia. Moravia, che però, nonostante le stupidaggini che può fare, resta un uomo – alle volte – intelligente; Carlo Levi per cui soffro, essendogli amico, vedendolo diventare sempre più insopportabile e ridicolo». Racconta a Chichita le incombenze lavorative: l’edizione critica delle poesie di Pavese, che l’ossessiona; la correzione bozze della nuova edizione del libro La speculazione edilizia («Non ricordavo di aver scritto una cosa così bella»), il progetto di una rivista italo-franco-tedesca che non vedrà la luce; la preparazione di quello che sarà Marcovaldo, la serie di storie cosmicomiche... La mette al corrente dei litigi ideologici in casa editrice (la censura di Goffredo Fofi). La aggiorna sulle sue letture: Sofocle, Marx, Pascal, saggi come Sociologia della rivoluzione algerina di Frantz Fanon, «negro delle Antille», mentre «non riesco a leggere più romanzi, dopo poche pagine non me ne importa niente e chiudo il libro». Le confessa i libri che avrebbe voluto scrivere lui (Una questione privata di Beppe Fenoglio). La tiene informata sulle mostre che visita (Francis Bacon: non gli piace) e i film che vede (Jules et Jim: «c’è dentro una pulizia morale, una chiarezza, una società. Truffaut non è Godard, insomma; io odio Godard»; Mamma Roma, che lo delude; 8 e mezzo, «molto bello, con cose geniali, anche se stracarico, composito; Fellini non ha misura e non si sa fermare in tempo»).
Ma sopratutto si scaglia contro le pessime abitudini del culturame italico. «Purtroppo il mese di giugno a Roma è antipatico perché il mondo letterario vive per il premio Strega che si dà a luglio e per un mese non si parla d’altro». Oppure: «Non riesco più a riconoscere Natalia Ginzburg, che era la donna più refrattaria alle ambizioni di successo, la più torinese, la più coerente nella sicurezza di essere diversa dal mondo mondano-letterario-ufficiale di Roma. Anche lei è presa nel giro, dopo tanti anni di Roma, e vive solo per il Premio, che quasi sicuramente non prenderà» (e invece lo vince, nel ’63, con Lessico famigliare).
Ma alla fine sono solo pettegolezzi... Pensiamo alla vita, «Querida Chichita».
E Muchos besos.