il Giornale, 4 novembre 2023
Alla Fiat di Cassino
L’ odore sembra quello di sempre a novembre, con le foglie di platano che si macerano sull’asfalto bagnato, proprio lì dove tra poco dovrebbe arrivare la corriera che porta a Piedimonte San Germano, il paese che ha un confine solo immaginario con Cassino. Sono le nove meno venti della sera e il crepuscolo è ben oltre la realtà, tra una cinquantina di minuti lungo una strada a due corsie che con un certo ottimismo continuano a battezzare superstrada si arriverà alla grande fabbrica, quella che per brevità continuano a chiamare Fiat. Stellantis da queste parti è una promessa non mantenuta. La corriera Cotral blu notte invece fa davvero una bella impressione. Non è come quelle di una volta, grasse e con l’odore dei freni che ti ribaltavano le viscere a ogni curva. È un bus snello, compatto, con i sedili puliti e una strana pubblicità progresso sulle fiancate: non pagare il biglietto porta sfortuna. È un frammento di apocalisse etica: ricordati che devi timbrare. Non è una preoccupazione che tocca gli operai, che pagano l’abbonamento e a fine mese fanno il conto con il salario reale. Salgono a bordo per abitudine, con l’orizzonte del turno di notte e per lo più sono maschi che hanno superato la quarantina, con due o tre che hanno più o meno la tua stessa età e li conosci da sempre, pure loro in attesa di una pensione che si sposta ogni anno più in là. Le donne sono più giovani e sorridono, parlano, simpatiche, strafottenti. Si sono sposate presto e poi magari hanno divorziato. Ora si ritrovano con figli adolescenti e nuovi compagni. La metamorfosi non le spaventa. A Cassino gli Agnelli non sono più tanto di casa. Adesso, dicono, comandano i francesi e la sensazione è che si tiri a campare, come è sempre stato, solo che adesso tutto sembra più lontano. La Fiat sta qui dal 1972, come una città in mezzo alla campagna. A sognarla fu Antonio Grazio Ferraro, il sindaco di Cassino di allora, che venne a sapere da qualcuno, forse Andreotti, che a Torino volevano aprire uno stabilimento nelle terre della Cassa del Mezzogiorno. Cassino, città martire della Seconda guerra mondiale, si trovava proprio sul confine, qualche chilometro a Sud, e meritava un risarcimento, non solo morale. Solo che a Cassino non c’erano spazi liberi e la scelta cadde sul paesino accanto, Piedimonte San Germano. La grande fabbrica sorge su due milioni di metri quadrati e quattrocentomila sono coperti. Adesso purtroppo una buona parte in dismissione. La prima automobile prodotta fu la 126, quasi l’incarnazione di quei contadini che si ritrovarono in tuta blu. Per lavorare in Fiat si chiedeva ai sindaci democristiani che conoscevano qualche senatore o all’abate di Montecassino per intercessione di qualche parroco. La quota di minoranza invece toccava al Pci e in questo caso vivere a San Donato Val di Comino aiutava parecchio. Cesare Romiti li chiamava «metalmezzadri». Erano gli anni ’70, di lotta e di piombo, e i nuovi operai quando c’era da seminare o da mietere si mettevano in malattia. A quanto pare tutti chiudevano gli occhi. La Fiat negli anni grassi ha avuto punte di 12mila e 500 dipendenti. Poi, decennio dopo decennio, la sforbiciata. I robot si sono inseriti senza sforzo nel fordismo. Cassino fabbrica all’avanguardia, modello tecnologico, la casa stellare dell’Alfa Romeo, la visione di Sergio Marchionne e poi l’accordo con la Peugeot e il governo Macron che cambia tutto. Ora, tra colletti blu e bianchi, sono rimasti in meno di tremila. Si teme che tra pensionamenti e blocco delle assunzioni se ne possano perdere in due anni altri mille. La città delle macchine ora è un paesino. Non è facile da queste parti fidarsi dei francesi. L’ultima volta hanno bombardato, con i loro alleati, la città e Montecassino, l’abbazia dove San Benedetto ha gettato la pietra d’angolo del monachesimo. Quando hanno rotto il fronte e cacciato i tedeschi le truppe si sono divise. Gli anglosassoni sono saliti a Nord, con i maori neozelandesi come liberatori, i francesi si sono mossi verso il litorale e per un paio di giorni hanno dato il via libera agli istinti più bestiali. Lo stupro di massa come segno di vittoria. Ecco le «marocchinate» raccontate da Moravia e De Sica. Il metodo Tavares. È di questo che si parla sulla corriera. Carlos Tavares è l’amministratore delegato di Stellantis. Non c’è dubbio che per lui Cassino sia solo un punto smorto sulla cartina geografica. L’ordine è ridurre i costi all’osso e minimizzare anche i tempi del respiro alla catena di montaggio. Il più anziano degli operai racconta il freddo dello scorso inverno. «Non hanno accesso i termosifoni e per pietà ci è arrivato un maglione termico». Non va meglio d’estate. «A luglio con trenta e passa gradi si lavorava senza aria condizionata». La realtà purtroppo è che alla fine si lavora poco, perché le linee vanno a singhiozzo e sì c’è l’orgoglio Alfa e Maserati, con Giulia, Stelvio e Grecale, e la promessa dell’elettrico di lusso, ma i grandi numeri si fanno in Francia e in Polonia. La cassa integrazione è una costante da anni. «Si va in fabbrica un giorno sì e uno no», dice una. E un altro precisa lo sconforto: «Io ormai riesco a lavorare solo due giorni a settimana». Il rimpianto per i tempi di Sergio Marchionne si respira a pelle, forse è colpa della nostalgia. «L’ultima volta che venne qui ci disse di non fidarci dei francesi. L’ho sentito con queste orecchie. E se proprio bisognava accasarsi meglio la Renault della Peugeot. La verità è ci hanno abbandonati. Svenduti». Gira questa storia del meraviglioso impianto di verniciatura, uno stabilimento all’avanguardia. «Lo hanno smantellato e portato in Francia». Il gruppo dice che ne hanno traslocato solo metà, un pezzo qui e un altro là, perché unendo il vecchio e il nuovo si sono accorti che l’efficienza migliora. Le facce indicano perplessità. Quello che fa male è il senso di abbandono. Ormai è ufficiale la vendita della palazzina che da mezzo secolo ospita il centro strategico, la direzione e tutti gli uffici. Alessio Porcu, il giornalista che qui fa sussurrare anche i muri, aveva anticipato la notizia. Nessuno ci credeva davvero. Il «Building 15» viene offerto a più di un milione e mezzo di euro, settemila metri quadrati divisi su quattro livelli più uno interrato. Qualche tempo fa a Cassino è passato Carlo Calenda, un comizio per denunciare l’eutanasia dell’industria automobilistica italiana. Se l’è presa in particolare con Maurizio Landini, leader della Cgil. Ti assicurano che a Piedimonte San Germano non si vede da più di dieci anni. Non c’è da stupirsi. Il suo sindacato qui è solo il quarto per numero di iscritti dopo Uil, Cisl e Fismic. Calenda sostiene che il sindacalista abbia fatto un patto con Elkann: io non ti rompo le scatole su ciò che resta della Fiat e tu mi assicuri l’appoggio dei tuoi giornali. Landini vede sempre più la Cgil come un partito di opposizione, con i pensionati da portare in piazza contro la Meloni. I metalmeccanici di Cassino, che da decenni hanno seppellito le origini contadine, non servono neppure più come tuta per vestirsi da operai. La finzione è inutile. Cassino non è neppure la preoccupazione di John Philip Jacob Elkann. Il suo lo ha già avuto. Stellantis nasce come una fusione, ma per molti è una vendita con benefit. La poltrona da presidente del nipote di Agnelli non è solo onorifica, ma serve a garantire soprattutto gli interessi di famiglia. L’accordo con Peugeot ha portato più di un miliardo e mezzo di euro nella cassaforte degli Agnelli, la strategica Exor. Gli stessi industriali dell’indotto ritengono che proprio quello sia il prezzo dell’abbandono o, se si vuole, del tradimento. Le aziende italiane che lavorano per Stellantis si lamentano, come gli operai, del metodo Tavares. I tempi di pagamento sono stati dilazionati e il risultato è che i crediti dell’indotto sono aumentati, ma sono andati alle stelle pure i debiti con le banche, con interessi vertiginosi grazie alla politica dei tassi della Bce. Questo vale anche per la rete dei concessionari, che ha sempre sostenuto le avventure finanziarie degli Agnelli, incrementando gli ordini quando c’era da sostenere i bilanci. La speranza è che si torni a investire, altrimenti quello che resta sarà solo un deserto. A giugno Stellantis ha spinto sulla rottamazione. C’è stato un incontro con Giorgia Meloni, con in mano un progetto scritto direttamente dalla multinazionale. Si racconta che il clima sia stato piuttosto freddo. Meloni ha chiesto a Tavares e Elkann di garantire per il 2027 un milione di auto prodotte in Italia. La trattativa si è fermata lì e la pratica è stata affidata al ministro Urso. Stellantis dovrebbe riprovarci a febbraio. La notte si fa sempre più scura. Piedimonte San Germano a novembre appare come un non luogo. La Fiat è un miraggio perduto. Non c’è quasi più nessuno che cerca una raccomandazione per lavorare in fabbrica. «Mio padre aveva capito tutto, che disgrazia lasciare la campagna e fidarsi degli Agnelli». In un angolo c’è il bar Metropolis, dove a pranzo si ritrovano ancora gli ultimi metalmeccanici. È un bar operaio di proprietà di un operaio della Fiat. La sera qui ci si rifugia sul fronte del palco, i gruppi del basso Lazio si alternano per suonare dal vivo. Solo rock duro e metallico. È l’urlo di addio dei metalmezzadri.