il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2023
A cosa serono i russi
Da qualche settimana porto in giro un monologo che si intitola A cosa servono i russi, lo leggo anche stasera al circolo dei lettori di Torino. Per uno che, come me, scrive, rispondere a questa domanda è molto semplice. La letteratura russa mi sembra ce lo dica continuamente, a cosa serve, a noi che scriviamo.
Nella Morte di Ivan Il’icč di Tolstoj, per esempio, Ivan Il’icč a un certo punto arreda l’appartamento che ha comperato, e ci mette “tutto quello che si trova di solito nelle case di quelli che non sono proprio ricchi ma che vogliono assomigliare a dei ricchi e finiscono così per assomigliarsi tra loro: damaschi, ebani, fiori, tappeti e bronzi, tutto scuro e brillante”; nell’appartamento di Ivan Il’icč “c’era tutto quello che le persone di un certo ceto trovano per assomigliare a tutte le persone di un certo ceto. E da lui assomigliava talmente, che era come se non si vedesse niente, ma a lui questo sembrava, in un certo senso, un tratto distintivo”.
Ci son dei libri che son scritti così bene, in italiano italiano, damaschi ebani fiori tappeti e bronzi, che è come se non si vedesse niente, e sembra che Tolstoj, scrivendo quel pezzo lì, ci dica “Stai attento”. Ma Tolstoj e i suoi colleghi non parlano solo a quelli che, come me, hanno il vizio di scrivere.
In agosto son stato a Pietroburgo per scrivere un libro e messo sui social delle foto della città e una signora ha commentato: “Ma davvero ci son dei turisti, in Russia?”. Un’utente ha spiegato a quella signora che io vado in Russia tutti gli anni e che di solito, sui social, racconto quello che faccio. E quella signora ha risposto: “Ma è opportuno?”. A Pietroburgo mi è successa una cosa che, per me, è preziosa. L’ultimo giorno che eravamo in Russia siamo andati al Museo Brodskij. È un museo che hanno aperto nella casa dove abitava Brodskij prima di lasciare l’Urss e diventar premio Nobel per la Letteratura; è un appartamento in condivisione al quale Brodskij ha dedicato un saggio commovente, Una stanza e mezzo; nel 2015, la prima volta che ho accompagnato un gruppo di appassionati italiani a Pietroburgo a vedere i luoghi dove è nata la grande letteratura russa (il viaggio si chiama Gogol’ Maps e appena finisce la guerra vorrei ricominciare a organizzarlo), ho letto in Internet gli orari del museo e ho portato i 25 italiani che erano con me al numero 24 del Litejnyj prospekt, sotto l’appartamento dove vivevano i Brodskij (che erano tre) insieme ad altre otto persone, tre famiglie che dovevano condividere con loro bagno e cucina.
“Il bucato – scrive Brodskij – veniva steso nei due corridoi che collegavano le stanze alla cucina, e ognuno conosceva a memoria le mutande dei propri vicini”. Allora, nel 2015, quando sono arrivato con le 25 persone, ho scoperto che il museo non lo avevano ancora aperto. In Russia succedono queste cose. Dopo, tutti gli anni che tornavo in Russia, chiedevo se era aperto il museo: non era aperto. Quest’anno era aperto, sono andato. Siamo entrati, ho salutato, ho chiesto in russo se si poteva visitare il museo. C’era una ragazza, mi ha chiesto in russo se avevamo prenotato. Le ho detto in russo che non potevamo, “Non ci funzionano le carte di credito– le ho detto – siamo italiani”. “Lo so”, mi ha detto lei. “Ecco – ho pensato – quando parlo in russo si sente il mio accento italiano”. “Ja vas čitaju”, mi ha detto poi lei, che significa “Io la leggo”. Si chiama Viktorija, studia italiano e legge i miei libri.
Ero così contento. Ho messo questa storia su Internet e una persona, su twitter, ha commentato: “Però la Russia ha invaso l’Ucraina, e questo è un dato di fatto”. Ecco. La notte prima di partire per Pietroburgo, ero agitato, mi succede sempre quando devo partire per la Russia, non riuscivo a dormire e ho visto una serie televisiva che raccontava il processo tra Johnny Depp e Amber Heard, del quale non sapevo praticamente niente. Io, nell’ultimo anno è mezzo, ho sentito praticamente solo notiziari russi, filo e anti governativi, e una volta, sul primo canale, una specie di Rai1, hanno parlato del processo tra Johnny Depp e Amber Heard e hanno detto che sono stati condannati tutti e due per reciproca diffamazione: lui deve pagare 2 milioni di dollari, lei deve pagare 15 milioni di dollari. “Questa è la dimostrazione che in Occidente mentono tutti. Raccontano delle gran balle in Occidente”, ha detto il presentatore russo tutto contento.
Ecco. In Russia ci sono probabilmente molte persone che credono a quel presentatore, e pensano che noi, in Occidente, mentiamo tutti. E in Occidente ci son probabilmente molte persone che credono che andare in Russia sia poco opportuno e che sono convinte che, se si affronta l’argomento Russia, da qualsiasi parte lo si prenda, si debba dire: “Però la Russia ha invaso l’Ucraina, e questo è un dato di fatto”. Ho parlato, a Pietroburgo, con un ragazzo che è contrario a questa guerra, che ha protestato contro la guerra e che è stato in prigione, nove giorni, nel febbraio del 2022. Gli ho raccontato che da noi, in Occidente, a Madrid, mesi fa, c’è stata una riunione della Nato, i giornalisti hanno protestato per il fatto che nel menu c’era l’insalata russa. Lui ha scosso la testa, ha detto: “Che coglioni”. L’insalata russa, in Russia, la chiamano “Salat Oliv’e”, dal nome del cuoco di origine belga nel cui ristorante è stata inventata, negli anni 60 dell’Ottocento. E ho poi detto a quel ragazzo che mi aspetto, da un momento all’altro, che vietino le montagne russe, e che i russi rispondano con delle controsanzioni e vietino le montagne americane (in Russia le montagne russe si chiamano amerikanskie gorki, “montagne americane”).
Tanti anni fa, un’italianista russa mi ha fatto un’intervista e mi ha chiesto come mai mi piace così tanto la Russia e io ho risposto che la Russia mi piace perché fa paura. Quest’anno, tra tutte le persone che ho visto in Russia, ce n’è una con la quale non sono riuscito a parlare: la direttrice dell’ente che ci ha invitato, il Museo Russo. La direzione del Museo Russo ha cercato in tutti i modi, riuscendoci, di negarmi il proprio aiuto senza essere formalmente attaccabile, e ho avuto l’impressione che io, alla Direzione del Museo Russo, facevo paura. C’è una poesia di Raffaello Baldini, si intitola Quelli che corrono, racconta di uno che scappa perché gli corrono dietro e si volta a guardare quelli che gli corrono dietro e gli sembra che abbiano dei coltelli, non è sicuro, e ha così paura che corre fortissimo e li semina, ma continua a correre forte lo stesso e dopo un po’, davanti a sé, vede della gente che corre che sembra che stia scappando da lui, e uno di quelli che scappan da lui si volta indietro e a lui sembra di riconoscere uno di quelli che lo rincorrevano prima. Ecco, noi e la Russia mi sembra che siam messi così, in un gioco di specchi, di paure e di contropaure, di sanzioni e di controsanzioni, di idiozie e di controidiozie che sarebbe ora che finisse presto ma che presto non finirà, ho paura.
C’è una cosa di Tolstoj che mi torna in mente spesso in questi mesi. Viene da un testo pubblicato nel 1909 che si intitola Preghiera per la nipotina Sonečka. Dice: “Dio ha ordinato agli uomini di fare una cosa: amarsi l’un l’altro. È questo che bisogna imparare a fare”. Io non credo in Dio, ma queste tre frasi mi fanno star male. Tutte le volte che le leggo mi viene da chiedermi: “Perché io non sono capace?”. E mi vien da rispondermi che i russi a quello servono, forse, a farmi star male.