la Repubblica, 4 novembre 2023
La testimonianza di Alì Haider
REGGIO EMILIA – «Ero come loro, per questo quando vidi sui social la foto di Saman che si baciava con un ragazzo la mostrai a mio padre. Io sono cresciuto in quella cultura, da piccolo i miei genitori mi hanno insegnato che non si poteva fare amicizia con le ragazze, era vietato. In quel momento avevo la loro stessa mentalità. Ma ora è tutto cambiato, mi sento italiano, e ho capito che hanno fatto una cosa sbagliatissima». Alì Haider, il fratello della ragazza pachistana uccisa per aver rifiutato un matrimonio combinato dalla famiglia, lo dice con sofferenza. Per otto ore si è sottoposto alle domande ricostruendo nel suo secondo giorno di testimonianza l’omicidio di Saman e, soprattutto, il contesto nel quale è maturato. Rispondendo ha descritto l’indole coraggiosa della sorella: «Quando papà tornava ubriaco e ci picchiava, Saman era l’unica a ribellarsi e a dirgli in faccia quello che pensava».
In casa c’era un padre padrone, Shabbar Abbas, un uomo violentoche aveva timore solo del fratello, Danish Hasnain, indicato come l’esecutore materiale del delitto. Dello zio «avevano paura tutti perché picchiava duro» e «anche a me, quando siamo scappati mi minacciò dicendo che se avessi parlato mi avrebbe ammazzato, come aveva fatto con mia sorella».
La parte più dolorosa della deposizione è arrivata quando l’avvocata di parte civile Teresa Manente, ha chiesto ad Haider, allora sedicenne, dei trattamenti che Shabbar riservava alla famiglia. Haider si è prima bloccato, poi ha detto: «Non voglio parlare di questo perché ho paura di mio padre». Poi, dopo una pausa utile a stemperare il clima pesante, il testimone ha continuato a descrivere sia il periodo precedente alla notte dell’omicidio, tra il 30 aprile e il primo maggio 2021, sia i mesi successivi.
Protetto da un separé, al riparo dagli sguardi degli imputati accusati del delitto (il padre, lo zio e due cugini, mentre la madre è ancora latitante), il giovane ha spiegato di aver deciso di testimoniare per «alleggerire il peso che si porta nel cuore, e per ottenere giustizia per Saman». Quasi in lacrime ha ripercorso quello che sta vivendo da quel giorno: «Le foto di mia sorella sono attaccate in camera mia, e quando le guardo sbatto la testa al muro. Questa tragedia me la porterò dietro per tutta la vita, ma ora voglio sfogarmi dicendo come sono andate le cose e quello che è successo».Il ragazzo dice che Saman fu costretta a lasciare la scuola dopo la terza media «perché mio padre non voleva che incontrasse i ragazzi, doveva stare chiusa in casa a pulire». Poi ha raccontato di come la sorella «diceva in faccia le cose a papà, quando faceva cose sbagliate». Il riferimento è a botte e vessazioni, cui era sottoposta l’intera famiglia quando tornava ubriaco: «Ci sono stati episodi in cui mio padre picchiava un sacco mia mamma, tutti i giorni. Ci cacciava di casa e passavamo le notti fuori quando faceva freddo». Heider ha anche ammesso di aver pensato di togliersi la vita: «Sono rimasto solo, nessuno dei miei parenti capisce quello che sto facendo e anche adesso (l’ultimo episodio risale a due giorni prima dell’inizio della testimonianza,ndr ),continuano a telefonarmi per convincermi a non dire la verità e scagionare tutti».
Il ragazzo sarà in aula anche venerdì prossimo per concludere la sua deposizione. «Voglio rispondere a ogni domanda, raccontare tutto quello che so – ha detto – perché alcune cose mi sono venute in mente dopo aver iniziato a collaborare, su altre ho mentito perché mio padre mi diceva di farlo e altre ancora mi stanno tornando alla memoria ancora adesso». Come la storia delle scarpe di Saman che indossava la sera dell’omicidio: «Nessuno mi ha mai chiesto che fine abbiano fatto. Ve lo dico io: le sue scarpe da tennis bianche sono in Pakistan, dove le hanno portate i miei genitori quando sono scappati».