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 2023  novembre 04 Sabato calendario

Intervista a Dino Meneghin

Dino Meneghin è innamorato della sua Caterina. Si proteggono, volendosi bene, stando insieme dal 1985. Dino Meneghin vola: proprio così, la compagnia aerea Ita Airways ha battezzato un aereo della flotta con il suo nome. Dino Meneghin è un film, prodotto dalla Rai, trasmesso pochi giorni fa, che ha avuto numeri e audience di tutto rispetto. Da vedere. Dino Meneghin è una scarpa, naturalmente da basket, appena lanciata sul mercato dalla Diadora. Dino Meneghin è un campione eterno che vive i suoi 73 anni in serenità, dopo una carriera da guerriero, sottocanestro sia chiaro, lottando per la squadra, mettendosi al servizio dei suoi tifosi e dei suoi compagni. Due vite, la prima a Varese, la seconda a Milano, con pochi rintocchi anche a Trieste e la maglia azzurra che ha incorniciato il capolavoro chiamato Superdino: ormai un gran lombardo convinto, con il ricordo sempre vivo per la sua Alano Fener.
Meneghin, come si sta a 73 anni?
«Ci sono mattine complicate, a volte mi sveglio con qualche dolorino. Se resta tale, ci passo sopra, se invece diventa più serio lo combatto con l’antidolorifico. Come tutti».

Sì, ma con un privilegio: lei ha un medico in casa, sua moglie Caterina.
«È vero, sono fortunato, Caterina è bravissima, mi segue con molta attenzione».
Caterina è chirurgo plastico: lei Meneghin, ha mai pensato a un ritocco?
Ride Dino: «Come no, Caterina mi ha preso per quello. Avrà pensato quando mi ha visto la prima volta: “qui c’è da lavorare una vita...”».

Dino è famoso per la sua ironia, la voglia di sdrammatizzare. La verità è che la moglie, la dottoressa Caterina, è una valente professionista, con specializzazione raggiunta ai grandi ustionati del Niguarda, un centro di eccellenza nel campo della chirurgia plastica. Sono 38 anni che si vogliono bene e Dino, da sempre restio a parlare dei fatti suoi, stavolta si apre un po’ (ma solo un po’): «Il segreto della nostra felice unione? Si chiama amore. Stiamo bene insieme, una dimensione cresciuta giorno dopo giorno, con spontanea complicità. Caterina è una donna dalla forte personalità, ma tutti e due sappiamo quando è il momento di cedere, di venirsi incontro, di assecondare i nostri desideri».
Il Covid: è vero che lei l’ha preso male?
«Intanto non l’ho preso. Ma lo riconosco: è stata dura. Ho fatto i miei vaccini, ho seguito precauzioni e prudenze, però ho sofferto il limite alla libertà che il Covid ci ha imposto. Per fortuna avevo accanto mia moglie. Eppoi, avevamo e abbiamo la compagnia di cane e gatto».
Lei con chi sta? Cane o gatto?
«Ho sempre avuto il cane, fin da ragazzino. Ma col tempo ho imparato ad amare anche il gatto. Il cane si chiama Pippa, il gatto è Spotty. Se mi metto sul divano, Spotty è sicuro che arriva, si corica sopra di me, cerca il contatto».
D’accordo, ma chi porta fuori Pippa?
«Caterina, oppure la signora che aiuta in casa. Ma non perché io fugga dal dovere casalingo: no, se Pippa esce con me, non fa i suoi bisogni. Allora, dico io, è inutile».
La scusa è buona. Ma lei il grande Dino collabora in casa?
«Caterina non mi fa fare niente. Anche perché, dico la verità, non sono tanto bravo. Giorni fa mi sono messo in testa di sturare la doccia, ho allagato la casa, ho fatto dei danni da migliaia di euro».
Parliamo di basket, che è meglio. Come si diventa campioni?
«Amavo giocare: questo è il punto di partenza. Poi, un valore l’ho trovato in famiglia: da papà e mamma. I sacrifici danno sempre dei risultati. Mio fratello Renzo e io siamo cresciuti in una famiglia, nonni e genitori, abituata a fare sacrifici».
Superdino acclamato in Italia e temuto in Europa come nasce?
«Il lavoro, l’intensità nell’allenamento, che poi dà i suoi frutti in partita, aver potuto giocare in grandi squadre, insieme a compagni molto forti, essere guidati da grandi allenatori, le vittorie, perché a Varese prima e a Milano poi arrivare secondi era un insuccesso, facilita, agevola e fa crescere lo status di un giocatore».
Ma cosa fa la differenza?
«La forza mentale».
È con questa che è diventato un leader, sia a Varese che a Milano?
«Ho sempre lavorato con impegno. Poi, se capivo che un compagno aveva un problema, lo cercavo, gli parlavo. Per gli stranieri non era facile inserirsi in una squadra, in una città nuova, venivano da un altro basket, addirittura da un altro mondo».
Lei a Milano ha aiutato Joe Barry Carroll a inserirsi.
«Un grande giocatore. Ma non conosceva bene il nostro basket e quello europeo. Ricordo che in campionato l’allenatore avversario aveva messo in campo un giocatore che doveva provocare Carroll, possibilmente menarlo. Joe Barry si stava innervosendo, aveva gli occhi in fiamme. Gli ho detto: “Joe, calma, non reagire, quello è entrato apposta per farti arrabbiare”. Ha capito subito, si è messo a giocare, ha pensato alla squadra, la sua prestazione è cambiata, noi abbiamo vinto».
La parola giusta al momento giusto: questo è il leader.
«Senza mai invadere il campo tecnico, quello del coach: ho sempre rispettato i ruoli».
Per questo dà ancora adesso del lei a Dan Peterson, il suo allenatore nella grande Milano, anche se di Peterson è stato il testimone di nozze?
«Ho sempre dato del lei ai miei allenatori, da Nico Messina a Dan Peterson, passando per Gamba. Giusto così».
Chi è stato l’avversario che le ha procurato maggiori problemi?
«Kresimir Cosic, jugoslavo, era il mio idolo, sapeva fare tutto in campo. Poi il lituano Arvydas Sabonis, ma io l’ho incontrato che ero nella fase calante della mia carriera, lui invece era la stella nascente».
Il suo rammarico di non essere andato nella Nba.
«Ce l’ho, inutile negarlo. Ma le proposte, prima di Atlanta poi di New York, mi sono arrivate in momenti sbagliati. Mi consolo dicendo a me stesso: se rinasco, mi ripresento io alla Nba».

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Meneghin e McAdoo con la canotta della Tracer Milano
Senta un po’, i suoi nemici, i tifosi delle squadre avversarie, sostengono che gli arbitri permettevano di tutto a Dino Meneghin.
Ride ancora: «Parlano le mie espulsioni, i falli tecnici che gli arbitri mi hanno fischiato. Quando mi buttavano fuori ero il primo a fare autocritica. Ma non si può dire che ci fosse sudditanza psicologica nei miei confronti».
Lei ha sempre avuto un pessimo rapporto con gli arbitri.
«Non sopportavo quelli grassi, quelli non preparati. Faticavano a seguire le azioni. Mi facevano arrabbiare, ho sempre pensato che fosse una mancanza di rispetto».
La diverte il basket di adesso?
«Lo seguo, ma mi piace meno rispetto a prima. L’ostinata ricerca del tiro da tre punti non mi convince. Mi piace di più il gioco organizzato, che coinvolge tutta la squadra».
Lei ha giocato oltre i 40 anni, difficile smettere?
«Per me non lo è stato. Quando ho capito che le idee andavano più veloci delle gambe, che stavo facendo fatica sul piano fisico e atletico, ho smesso».
Prima è riuscito a giocare contro suo figlio Andrea. Anche lui un campione. Ma i cromosomi del talento non si trasmettono.
«Ho capito che Andrea avrebbe potuto sfondare quando a 12 anni mi ha fatto un passaggio schiacciato a terra con una naturalezza impressionante. E ha fatto tutto da solo, senza sfruttare il suo cognome».

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Nel 1990, a 40 anni, Dino Meneghin sfida il figlio Andrea in Trieste-Varese
A suo tempo, molti anni fa, la politica, il Psdi, la corteggiò candidandola. La segue la politica?
«In tv c’è una abbuffata di talk e di trasmissioni, come si fa a non seguirla».
Cosa pensa di Giorgia Meloni?
«È determinata, risolutiva, mi piace. Deve vincere due battaglie: la prima contro chi pensa che fa un mestiere da uomo. Siamo ancora a questo livello. La seconda è che fare il premier è un compito impossibile, sempre in salita».
E della sua rivale, di Elly Schlein?
«Ho l’impressione che dica cose che ho già sentito».
Lei Meneghin sta bene a Milano?
«Una città che mi piace. Ma sta correndo un rischio: che si diffonda tra i cittadini la sensazione di vivere in pericolo: da tempo non indosso l’orologio, non mi sento più sicuro».
Il prossimo canestro di Dino Meneghin?
«A 73 anni non cerco nulla, ma se mi viene proposta una esperienza interessante, la valuto, ci rifletto, poi decido se affrontarla: serenità e salute».