Corriere della Sera, 4 novembre 2023
La storia di un’idea diventata Stato (subito attaccato)
«Non credo sia possibile uno Stato degli ebrei sino a quando il Messia non sarà arrivato, sono contrario alla sua conferenza nella nostra città», rispose il rabbino capo di Berlino a Theodor Herzl. Colui che è considerato il leader fondatore del sionismo moderno chinò il capo senza troppo discutere e traslocò a Basilea.
Era il 1897: Herzl (1860-1904), un ebreo ungherese che faceva il giornalista a Vienna. Era il tipico assimilato con poca conoscenza della sua tradizione religiosa, venne spinto a cercare una soluzione all’antisemitismo dopo l’affaire Dreyfus in Francia e in risposta ai continui pogrom contro le comunità nell’est europeo. L’anno prima aveva scritto un pamphlet, Lo Stato degli Ebrei, in cui sosteneva che loro non erano solo una religione, bensì un gruppo nazionale in attesa di realizzare il proprio destino. Si differenziava dagli slanci di piccoli gruppi messianici del passato, che nei secoli avevano propagandato la necessità della ricostruzione del regno d’Israele. Le sue idee, piuttosto, erano figlie dei movimenti nazionali laici europei e dei problemi crescenti per gli ebrei, che dopo avere beneficiato della diminuzione del tradizionale antigiudaismo cristiano in un continente progressivamente più secolarizzato, subivano ormai l’antisemitismo razziale.
Dove andare?
Ecco allora la risposta del sionismo: gli ebrei dovevano difendersi da soli, avere un esercito, farsi Stato. Ma i contrasti interni furono duri sin dall’inizio. Era più importante redimere la terra degli antichi regni d’Israele, oppure salvare il popolo ebraico dalle persecuzioni nella diaspora creando al più presto un suo Stato ovunque fosse possibile? (Ci fu chi propose di creare un’enclave ebraica in Argentina o in Madagascar). Si potevano fondare gli insediamenti agricoli senza la benedizione dei rabbini? E che fare della popolazione araba: integrarla, pagarla e incentivarla affinché se ne andasse, oppure espellerla con la forza se necessario? Su questo punto il primo sionismo spesso glissava. Dopo il Congresso di Basilea il consiglio rabbinico di Vienna inviò una delegazione nella regione per capire che ne pensassero gli arabi. Risposero lapidari: «La sposa è magnifica, ma unita a un altro uomo».
Nacquero allora due scuole di pensiero. Per la sinistra laburista ciò che contava era la qualità della popolazione: meglio avere una terra più piccola, però con una netta maggioranza ebraica. David Ben Gurion (1886-1973), il costruttore dello Stato, fu pronto a molti compromessi, compresa l’accettazione del piano di partizione della Palestina proposto dall’Onu nel 1947, pur di ottenere la legittimità internazionale. La destra revisionista, più legata alla tradizione religiosa, considerava invece fondamentale tornare ai confini di due millenni fa. Era la terra a determinare il tasso di ebraicità. Ze’ev Jabotinsky (1880-1940), suo capo carismatico a periodi ispirato al fascismo italiano, si opponeva in ogni modo alla partizione: solo la forza avrebbe imposto il fatto compiuto. In un celebre articolo del 1923 scriveva che gli arabi si sarebbero opposti «in ogni modo alla presenza ebraica sino a che avranno la speranza di scacciarci» e dunque occorreva un «muro di ferro».
Intanto, era iniziato il fenomeno dell’Aliya, «la salita», l’immigrazione. La prima ondata fu tra il 1882 e il 1902, circa 30.000 ebrei quasi tutti dell’est europeo, avevano raggiunto la Palestina ottomana. Ma fu la Seconda Aliya, 40.000 dal 1904 al 1914, a costituire la pietra miliare di quello che sarebbe stato l’Yishuv, la comunità ebraica prima della nascita dello Stato: coesa, determinata, fondatrice dei kibbutz, delle unità militari e delle istituzioni che poi dal 1947 al 1949 avrebbero permesso di vincere la Guerra d’Indipendenza. Furono loro a concepire l’idea dell’«ebreo nuovo». Si ispiravano al mito dei cananei; tramite il lavoro agricolo si sarebbero «sposati» alla terra, l’avrebbero ebraicizzata, rovesciavano la piramide sociale della diaspora. Negli shtetl europei erano cambiavalute, banchieri, negozianti, maestri, impiegati; qui diventavano contadini, operai, soldati. Il 2 novembre 1917, quando il ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour consegna a Lord Rothschild la celebre Dichiarazione, in cui per la prima volta si parla di un «focolare ebraico» in Palestina, l’Yishuv conta circa 56.000 persone, contro oltre 600.000 arabi.
Guerre e rinascita
Le nuove colonie sono concentrate in Galilea, attorno ad Haifa, nella piana costiera di Jaffa. Ma adesso c’è il riconoscimento internazionale, i leader sionisti cercano il sostegno inglese, americano, visitano le capitali europee. L’immigrazione cresce dopo la Prima Guerra mondiale. Le prime rivolte arabe importanti sono del 1920. Gli inglesi impongono i primi «libri bianchi» per limitare l’immigrazione. Nel 1929 il grave pogrom di Hebron prelude alle vaste sommosse antiebraiche del 1936, quando il parlamento britannico invia la Commissione Peel che afferma: i due popoli non possono convivere, occorre creare due Stati. La Seconda Guerra mondiale congela il conflitto. Ma nel 1945 l’emergere dell’abisso dell’Olocausto ridà legittimità e riconoscimento alla necessità di uno Stato per gli ebrei. Scatta la guerriglia. Gli inglesi decidono di abbandonare la regione entro la primavera 1948. Gli eserciti di Egitto, Giordania, Iraq, Siria e Libano attaccano assieme alla guerriglia palestinese e vengono sconfitti. Prima della guerra gli ebrei nella Palestina mandataria erano 630.000, gli arabi 1.350.000. Il 14 maggio nasce Israele. Nel suo territorio gli ebrei adesso sono 720.000, gli arabi 156.000.
(1/continua)