La Stampa, 4 novembre 2023
La rivolta di Trieste del 1953
5 e 6 novembre 1953: nelle vie di Trieste la popolazione manifesta per chiedere la fine del Gma (Governo militare alleato) e le forze dell’ordine inglesi sparano ad altezza d’uomo. Due morti il primo giorno, altri quattro in quello successivo; feriti; decine di arresti. «Posso testimoniare per averlo sperimentato in prima persona, la polizia sparava contro le persone – ha scritto Diego De Castro, consigliere diplomatico italiano presso il Gma -. Sul far del tramonto ero uscito per rendermi conto della situazione: mentre sbucavo da dietro il municipio in piazza Unità d’Italia, mi fischiarono vicino alla testa alcune pallottole provenienti dalla Prefettura».Storia di un’altra stagione, storia di un’Italia uscita sconfitta dalla Seconda guerra mondiale e come tale trattata al tavolo della di pace di Parigi: nel nord-est della penisola, dove la Jugoslavia di Tito ha ottenuto Istria, Dalmazia e arcipelaghi dell’Adriatico settentrionale, c’è il nodo di Trieste, capitale naturale della regione giuliana. La città, con la sua storia, la sua ricchezza, il suo porto, deve far parte del mondo comunista o di quello occidentale? Il negoziato tra i vincitori porta alla decisione di creare il Territorio Libero di Trieste, una sorta di cuscinetto tra i due mondi, ma il compromesso diplomatico resta sulla carta. Siamo nel 1947, la Guerra Fredda è ormai la nuova realtà dello scenario internazionale, suggellata da una frase iconica di Churchill («da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico una cortina di ferro è scesa sull’Europa: di là i Paesi schiavi, di qua i Paesi liberi»: da cui l’espressione giornalistica «Paesi d’oltre cortina»).All’interno di questa cornice, americani e inglesi non intendono lasciare Trieste sguarnita della propria presenza ma, al contrario, vogliono presidiare la “porta” come garanzia politica e psicologica, prima ancora che militare. Nell’attesa sine die che il Territorio Libero sia costituito si mantiene così l’esistente: una Zona B (comprendente Pirano, Buie e altre località dell’Istria settentrionale) sotto amministrazione militare jugoslava e una Zona A (Trieste, la zona costiera sino a Duino, l’entroterra di Opicina e Monrupino) sotto controllo angloamericano, esercitato attraverso il Gma.Ma Trieste è zona di frontiera, prima ancora che di confine: dunque, zona di tensioni, latenti o palesi. Noi usiamo in modo indifferente due vocaboli che indicano cose diverse: “confine” è la linea di demarcazione tra due Stati, la sbarra, i doganieri, il controllo dei documenti (come a Chiasso o al Gran San Bernardo); “frontiera” indica invece un’area vasta nella quale convivono comunità di nazionalità, lingua, tradizioni diverse, e dove il “confine” si è variamente spostato seguendo le vicende della storia. In slavo “frontiera”, intesa in questa accezione, si dice “craìna”, e “u craìna” significa “sulla frontiera": un giorno, quando si potrà scrivere la storia del conflitto in Donbass e in Crimea, emergerà la realtà delle contrapposizioni tra russofoni e ucraini e forse si spiegheranno molte cose (al netto della condanna senza appello di chi aggredisce e bombarda i civili). Zona di “frontiera” è il Nagorno-Karabakh, luogo di scontro tra armeni ed azéri; zona di frontiera (in un contesto e con dinamiche tragicamente particolari ed esasperate) sono diventate la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, il Libano meridionale.Trieste è la capitale della “frontiera adriatica”, luogo di incrocio tra italiani, sloveni, croati: è stata sede di un fascismo aggressivo, dove la propaganda nazionalista si è incendiata nel confronto con nazionalità diverse; è stata occupata dalle truppe di Tito nella primavera 1945 e ha conosciuto la tragedia delle foibe; ha visto decine di migliaia di italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia attraversarla profughi, in fuga dal nazionalcomunismo jugoslavo.Nel 1953, dopo quasi un decennio di governo militare, nella comunità italiana c’è un diffuso malessere per il perdurare di una situazione di emergenza che trascina la guerra nella pace. Il 4 novembre un folto gruppo di cittadini di ritorno dal sacrario di Redipuglia improvvisa una manifestazione per l’italianità di Trieste: il generale britannico Winterton, che guida il Gma e che il giorno prima ha fatto rimuovere dal Municipio la bandiera tricolore esposta contravvenendo ai suoi divieti, ordina ai reparti mobili della Polizia Civile (comandati da ufficiali inglesi) di disperdere la folla. Seguono scontri violenti che si propagano per la città e durano nei giorni successivi. Winterton teme che le manifestazioni italiane scatenino la reazione slovena: con la durezza dell’intervento militare, egli alimenta però tre giorni di guerriglia e di sangue. Mobilitazione di studenti, di ex combattenti, di lavoratori del porto, di cittadini qualunque, tra cortei e assembramenti. Un clima preinsurrezionale, a cui il Gma risponde prima con cariche dure, poi il fuoco, esasperando la situazione. Sei morti in due giorni, ragazzini quindicenni come Piero Addobbati, ex partigiani come Saverio Montano, vecchi portuali come Antonio Zavadil: sulla facciata della chiesa di Sant’Antonio sono rimasti i segni dei proiettili sparati ad altezza d’uomo.Per frenare i tumulti e ristabilire la calma ci vogliono l’intervento congiunto delle forze politiche e del clero, con in testa l’arcivescovo Santin: l’8 novembre la cattedrale di San Giusto ospita i funerali delle vittime, seguiti da oltre 100mila triestini in un’atmosfera gravida di tensione, ma senza ulteriori tumulti.Un anno dopo, il 26 ottobre 1954, Trieste tornerà all’Italia: per uscire dalla guerra in modo definitivo, la città ha dovuto pagare un prezzo aggiuntivo, i sei morti del novembre 1953 (che Ciampi onorerà con la medaglia d’oro al valor civile alla memoria). Questo significa essere “frontiera”.