La Stampa, 4 novembre 2023
Violante sul premierato
Sostiene Luciano Violante: è vero, «il problema della stabilità del sistema politico italiano esiste», ma il rimedio proposto dal governo rischia di non portare «più ordine» ma semmai «fratture sociali non ricomponibili», anche perché il progetto finirebbe per creare «un potere unico». Classe 1941, giudice istruttore a Torino fino al 1977, due anni dopo eletto deputato nelle liste del Pci, già presidente della Camera dei deputati, Luciano Violante è da decenni l’esponente della sinistra che più crede, sia pure nella distinzione tra le parti, alla condivisione di alcuni valori essenziali tra i diversi schieramenti.In Italia si sono succeduti 68 governi in 76 anni di Repubblica, ma se le altre democrazie hanno esecutivi di gran lunga più stabili, di certo il merito non si deve all’elezione diretta del premier, visto che non esiste da nessuna parte. Non basterebbe questa ovvietà?«L’instabilità italiana fino agli anni Settanta riguardava la durata degli esecutivi, non la linea politica dei governi che restava invariata. Era una partita tutta interna alla Dc, partito di maggioranza, che intendeva evitare un eccesso di potere dei singoli ministri. Dopo un anno e mezzo il governo cadeva, ma la linea politica restava la stessa. A partire dagli anni Ottanta, dopo l’assassinio di Moro, nasce la vera instabilità che riguarda tanto i governi quanto la linea politica. Comincia così la crisi del sistema e matura la necessità di una stabilizzazione».Lei dunque non contesta l’assunto dal quale parte il governo?«No, tutte le parti politiche negli ultimi 40 anni hanno cercato di dare stabilità al sistema. La proposta del governo si muove, a mio avviso in modo non condivisibile, nella stessa direzione. La cultura pubblica di destra ha sempre ritenuto che il rapporto diretto tra popolo e capo fosse risolutivo: non ho mai condiviso, ma era una tesi legittima in società compatte, non rissose, non polarizzate, disposte a riconoscere la sconfitta e a legittimare il vincitore. Oggi, in società conflittuali, fortemente polarizzate, i presidenzialismi sono inidonei perché il vincitore è considerato dalla società come rappresentante di una parte, non dell’intero Paese. È stato così con Obama prima e poi con Trump e con Biden. In Francia il presidente Macron avverte problemi analoghi e cerca di riparare dando maggiore rappresentatività al sistema politico».Presidenzialismo è antiquariato costituzionale?«Mi pare che i presidenzialismi appartengano al passato, un dignitoso passato, ma comunque passato. Oggi bisogna costruire unità e integrazione; è un compito che non può svolgere il presidente del Consiglio eletto direttamente, perché è il capo di una parte. Occorre un mediatore, qualcuno che rappresenti l’unità nazionale, senza essere una parte del conflitto. Il progetto colpisce al cuore non i poteri ma la funzione di rappresentante e costruttore dell’unità nazionale propria dei nostri presidenti della Repubblica, con il rischio di fratture sociali non ricomponibili. Dovremmo riflettere sui rischi che correrebbe l’unità nazionale. Credo che questo tema stia a cuore anche al centro destra».In questi giorni sui media imperversano espressioni in “costituzionalese": disperdere l’unità nazionale cosa significherebbe?«L’unità nazionale crea appartenenza essenziale: l’integrazione di tutti i cittadini nei valori della nazione. Non possiamo davvero dimenticare che il nostro Paese è uscito da situazioni difficili, come il suicidio della classe politica nel 1992-94, grazie a Presidenti che hanno saputo comporre gravi fratture, esercitando appieno la funzione dell’arbitro. Come sta accadendo in Spagna: dopo il risultato incertissimo delle elezioni, è il Re che, dopo aver dato due incarichi, sta trovando una via d’uscita».Anche mettendosi nei panni di chi sinceramente crede in un premier eletto, occorre dire che, dopo una lunga gestazione, la prima stesura propone una quantità inattesa di cortocircuiti…«La politica deve costruire un ordine; ma non mi pare che sia questo il caso; lo dico con il rispetto che merita chi ci ha lavorato. Segnalo un punto dolente: nella proposta del governo si crea un continuum tra il Capo del governo, che è eletto direttamente dal popolo, gli eletti in Parlamento, che al 55% sono al suo traino, dopodiché capo del governo e parlamentari eleggono il Presidente della Repubblica. Il Presidente del Consiglio avrebbe nelle mani il governo, il Parlamento e il Presidente della Repubblica. Saremmo al potere unico, altro che separazione dei poteri».Altri effetti-paradosso?«Nella proposta c’è un aspetto singolare: il presidente è eletto dal popolo ma poi deve ottenere la fiducia degli eletti in Parlamento: e quindi sembrerebbe che chi legittima il presidente del consiglio non è il voto popolare ma il voto parlamentare. A che serve, quindi, il voto popolare? Non sarebbe il caso di discuterne ?».Un governo che gode di una inalterata maggioranza relativa di consensi, che convenienza ha nello sfidare in un referendum una potenziale maggioranza assoluta di “no”? Oltretutto non si sfiderebbe l’attitudine degli italiani per i leader ma la diffidenza verso i “padroni”?«Questo non lo so, dipenderà dal momento. Però aspetterei: credo sia possibile avviare una riflessione seria e non di bandiera. Discutendo anche delle patologie del Parlamento, decreti legge e monocameralismo di fatto. Un governo forte ha bisogno di un Parlamento forte, perché i Parlamenti deboli sono mine vaganti per i governi».Il Pd sembra aver rinunciato a qualsiasi proposta riformista, attestandosi tra i difensori della Costituzione più bella del mondo: una posizione conservatrice?«A me è stato insegnato che in politica è statisticamente impossibile che tu abbia sempre ragione e gli altri sempre torto e dunque si tratta di capire quale sia, se ci sia, il punto di ragione della maggioranza. Io penso comunque che le opposizioni dovrebbero presentare una loro proposta per la stabilità».