La Lettura, 4 novembre 2023
Sul Misantropo di Molière
«Più ami qualcuno, meno devi adularlo». Rompere con il mondo è il desiderio di Alceste. Afflitto dall’ipocrisia e dalla frivolezza della società mondana, rivendica un ideale di onestà e trasparenza di cuore. Una sfida agli occhi della nobiltà, che ha imparato al contrario a tacere il proprio orgoglio e a sottostare ai compromessi della vita di corte... Alceste non guarda in faccia nessuno, castiga i suoi pari senza badare al decoro. Ma con sua grande sfortuna, è anche follemente innamorato di Célimène, civettuola e regina dei salotti. Da questa situazione paradossale nasce Il misantropo (1666) di Molière (1622-1673), «un grande classico che riflette bene il mondo di oggi» spiega Andrée Ruth Shammah, regista che porta in scena al Teatro Franco Parenti di Milano (8 novembre – 3 dicembre) il testo considerato più compiuto e allo stesso tempo più enigmatico dell’intera opera di Molière. Protagonista Luca Micheletti, baritono, ma anche attore e regista «eclettico e generosissimo – assicura Shammah —, sa che il teatro è teatro, gli steccati sono solo una banalizzazione. Il canto è una grande scuola di recitazione, gli attori che sanno cantare dovrebbero essere la normalità. Luca è un grande appassionato del drammaturgo francese, abbiamo lavorato insieme alla traduzione. Lui è stato rigorosissimo, ci siamo ritrovati molto alleati».
Nel Misantropo, Molière confina un’intera epoca in un salotto mondano, per criticare una società ambiziosa, avida e cinica. «Una società – osserva la regista – in cui il compromesso è essenziale per rispettare l’ordine sociale, e in cui Alceste non riesce a trovare il suo posto. Invoca l’assoluta sincerità in ogni circostanza e critica con veemenza l’ipocrisia e la gentilezza interessata. Eppure è disperatamente innamorato di una donna, Célimène (Marina Occhionero), che incarna tutto ciò che lui rifiuta». «Un innamorato – interviene Micheletti – definito come un Atrabilaire amoureux, un innamorato melanconico che oggi incaselleremmo come sociopatico. Una “malattia” che gli impedisce di vivere in maniera “sana” i rapporti interpersonali e in particolare quelli sentimentali. Non va dimenticato che quando Molière scriveva, scriveva per sé stesso. Il misantropo è un ritratto di sé stesso. Il rifiuto di Alceste per la superficialità e gli inganni del mondo ha qualcosa di eroico. Un’eroismo, qui sta la grandezza di Molière, che si tramuta in qualcosa di profondamente ridicolo nel momento in cui è spinto verso l’eccesso – il suo ritiro dalla società».
La psicoanalista Adele Succetti, autrice di un testo sull’opera di Molière pubblicato nel 2000 sulla rivista «La Psicoanalisi» (Astrolabio), sostiene che «Alceste mostra in modo evidente, anche grazie alla sua comicità, il fatto che il delirio dell’io – una modalità di godimento che oggi, con i social, ha assunto dimensioni planetarie – nella sua spinta a essere l’unico, a emergere sempre e comunque, si paga, come dice Jacques Lacan nel Discorso sulla causalità psichica, “nell’isolamento della vittima”. È, come indica Jacques-Alain Miller, “la legge della vittimizzazione ineluttabile dell’io”. Tanto più l’io si sente e vuole essere unico, tanto più l’altro che dissente assume la forma del carnefice, di colui che glielo impedisce. Eppure l’altro, per definizione, è il limite al narcisismo dell’io; quando invece, in nome della libertà o delle sensibilità personali, questo limite non viene accettato, il risultato è spesso l’“aggressione suicidaria del narcisismo”. Per essere sé stesso e per essere libero, infatti, Alceste non può fare altro che ritirarsi dal mondo ma, di fatto, non accetta nessuna perdita, e... non impara nulla». Prosegue Succetti: «Lacan scrive una verità che oggi mi sembra estremamente attuale, e cioè che “l’essere dell’uomo non solo non può essere compreso senza la follia, ma non sarebbe l’essere dell’uomo se non portasse in sé la follia come limite della sua libertà”. E Alceste, l’uomo libero, ce lo mostra bene: l’unico limite alla libertà del suo essere è la sua follia».
Alceste, riprende Shammah, «è un uomo tormentato d’amore, possessivo, alla ricerca di consenso, ovvero essere amato totalmente. Il rapporto uomo-donna è uno dei grandi temi di Molière, scrisse il ruolo di Célimène per la moglie Armande Bèjart, una ventina d’anni più giovane di lui, della quale era perdutamente innamorato. Voleva fosse solo sua, ma era consapevole che, così giovane, avrebbe dovuto vivere la sua vita. Da un lato l’uomo che vuole essere amato senza riserve; dall’altro, un uomo “pensante”, che soffre – trovo parli magnificamente al nostro presente».
La regista ricorda bene il suo primo incontro con Molière. «Fu con il Misantropo messo in scena nel 1977 da Franco Parenti, che considerava il genio francese più grande di Shakespeare. Il mio primo Molière è stato invece Il malato immaginario, ma a nutrirmi sono stati anche i lavori portati in scena da Carlo Cecchi». La scenografia dello spettacolo «è nata per caso, anche se io non credo al caso. Non avevo idee, di solito prende forma nella mia mente l’immagine dello spazio dentro cui si deve muovere l’allestimento. Poi un giorno facciamo una lettura con i costumi realizzati da Giovanna Buzzi in sala Testori. E quella è stata la scena: la compagnia che entra in un luogo e recita Il misantropo».