La Lettura, 4 novembre 2023
Sulla Callas
«E così abbiamo parlato, poi abbiamo sentito il resto dell’opera, dal momento che non volevo davvero perderla, una “prima” della Medea con Callas in straordinaria forma, una di quelle straordinarie serate di “sorge il diletto e l’estasi/ in mezzo allo spavento”, tipo “a star is born”, con tutto il pubblico che applaude felice per quasi mezz’ora senza andar via alla fine dello spettacolo, e metà teatro che grida selvaggiamente di gioia...». Lo spettatore d’eccezione è Alberto Arbasino e il brano si trova in L’anonimo lombardo (1966): «Ancora stridente e cool, upupa leggendaria».
Maria Callas è innanzitutto una voce, «upupa leggendaria», diversa da tutte le altre, messa ancora più in risalto da una potenza interpretativa che le derivava dai canoni del teatro greco classico: immedesimazione totale e spirito catartico. Ma «la Callas» o Maria Meneghini Callas, come allora veniva chiamata, va ben oltre il ritratto della cantante lirica che ha avuto una vita intensa, fatta di musica, enormi successi e tremende delusioni in campo sentimentale.
Tra i tanti giudizi di esperti e colleghi sono significative le parole del maestro Carlo Maria Giulini, che la diresse nella famosa «Traviata di Visconti» alla Scala (1955): «Fu un’esperienza indimenticabile. Per Maria niente era di troppo. Si costringeva a un tirocinio durissimo. Grande, grandissima professionista, oltre che immensa artista». Scrisse di lei anche Eugenio Montale, sulle pagine del «Corriere della Sera», dopo La sonnambula del 1955, diretta da Leonard Bernstein: «Fenomenale soprano leggero tragico di sapore espressionistico. Quando non canterà più lascerà dietro di sé una leggenda». E leggenda fu.
Come in tutte le leggende (e nelle regole narratologiche), l’inizio comporta una prova, un elemento perturbatore che pone ostacoli da superare. «Mi fece l’effetto di una donna sgraziata. Pesantissima, stazionata. Una ciabattona». È la descrizione crudele che la sorella di Giovanni Battista Meneghini, futuro marito della cantante, fa di Maria Callas nel 1947, durante i primi mesi in Italia.
Eppure, Maria Callas, con una determinazione pari solo al desiderio di apprendere, mira da subito alla classicità: sacerdotessa del bel canto, virtuosa, tragica. I critici parlano della sua apparizione come di un passaggio sconvolgente, di una mirabile presenza scenica che sapeva unire l’intelligenza artistica all’innato carisma, di una ricerca della perfezione senza limiti.
Callas è stata la prima cantante lirica a godere di una grande esposizione mediatica, grazie ai suoi successi ottenuti in ambito artistico ma anche alle sue tormentate vicende amorose (dal raggiro perpetrato dal marito padre-padrone Meneghini, il quale le avrebbe sottratto più di metà del suo patrimonio intestandoselo prima del matrimonio, al tradimento di Aristotile Onassis che la lasciò per Jackie Kennedy), alle «care amicizie» (Luchino Visconti, Franco Zeffirelli, Pier Paolo Pasolini con cui girò il film Medea). Attorno a lei, grazie anche agli intellettuali prestati al «bel canto», nacque un culto, sfociato nell’appellativo di «divina» che ancora oggi ne accompagna il nome. Prima di lei, l’epiteto era toccato solo a Greta Garbo, l’attrice per eccellenza degli anni Venti e Trenta del secolo scorso. La sua recitazione mai urlata, l’incredibile fotogenia, l’innata eleganza ne avevano fatto per anni una stella del cinema, della moda, del costume: «Il suo appellativo di Divina mirava indubbiamente a rendere, più che uno stato superlativo della bellezza, l’essenza della sua persona corporea, scesa da un cielo dove le cose sono formate e finite nella massima chiarezza» (Roland Barthes, Miti d’oggi).
Callas diventa divina dopo un lungo, faticoso processo di noviziato. All’inizio della carriera, i giornali la descrivono come una ragazzona prosperosa dai grandi occhi miopi. Persino la sua voce è messa in discussione. Aveva una gamma di eccezionale estensione che però comportava disuguaglianze di registro, disparità timbriche, asperità di vibrazioni. Quando da Sirmione si trasferisce a Milano, comincia a frequentare l’atelier di Biki (Elvira Bouyeure, amica intima di Wally Toscanini). Maria si accorge di non avere il fisico adatto per indossare i modelli della raffinata stilista. Torna un anno dopo trasformata, dopo un faticoso dimagramento: è un’altra donna, elegantissima, trucco vistoso per mettere in risalto gli occhi. Ha la fortuna di trovare in Renata Tebaldi l’antagonista (per i melomani uno scontro degno di Coppi-Bartali), ma che ben presto abbandona Milano per trasferirsi in America, dove diventerà primadonna incontrastata del Metropolitan.
Come un lepidottero che attraversa il mistero conturbante della metamorfosi (tanto quanto sono goffi i bruchi, simbolo della perfezione non raggiunta, tanto sono inafferrabili e affascinanti le farfalle che del bruco sono la trasformazione perfetta) Maria diventa «la Callas», un riferimento di stile ed eleganza, quasi un riverbero mediterraneo di Audrey Hepburn (Audrey amava vestirsi di un colore soltanto così da mettere in risalto la sua figura snella e slanciata), e dai salotti borghesi di Milano, molto anni Cinquanta – sono gli anni della ricostruzione – approda al jet set internazionale sotto l’attenta guida di Elsa Maxwell, la «pettegola», la penna al cianuro che faceva tremare Hollywood (ma di fronte alla Callas si scioglieva di tenerezza). Nel 1957, all’hotel Danieli s’incontrano per la prima volta Maria Callas e Aristotele Onassis a una festa organizzata da Wally Toscanini. Aristotele chiese a Maxwell, di invitare Callas e marito. I due s’intrattengono, si piacciono, si appartano. Per non farsi capire da nessuno, parlano in greco per tutta la serata. Poi si mostreranno ancora insieme, all’Harry’s Bar o sulla spiaggia dell’Hotel Excelsior, a ridere e scherzare, orgogliosi della loro intesa, indifferenti agli sguardi altrui.
Il concetto di «divina» o, meglio, di star si situa alla frontiera fra bravura e fascinazione, fra consapevolezza e illusione. Nasce dall’estetica, non da una credenza ma da una recitazione. Se Hollywood era riuscita a creare un suo firmamento, la grande fucina della mitologia moderna, trasformando i fantasmi psichici in una rappresentazione tangibile, anche il Melodramma trasfigura una sua interprete e la porta ad altezze inimmaginabili, rendendola libera e fluida nei movimenti, creando un modello espressionistico di recitazione dove canto e recitazione si integrano nella maniera più assoluta.
L’Archivio Publifoto di Intesa Sanpaolo ci regala una serie di istantanee che ritraggono Maria Callas fuori scena, nella quotidianità, ammesso che una divina possa conoscere l’ordinario. Citiamo a caso, per pura suggestione. Maria al ristorante, dopo lo spettacolo, seduta a fianco di Luchino Visconti. Maria a braccetto con il marito, davanti alla loro abitazione milanese (Meneghini tiene il cappello per non apparire troppo basso rispetto alla moglie). Maria nel salotto borghese di casa con Meneghini che non ha occhi che per lei. Maria che scenda da un treno indossando una vistosa pelliccia di visone. Maria che ride divertita in compagnia di Elsa Maxwell. Maria sul megayacht Christina O di Onassis, con un Meneghini visibilmente a disagio. Maria sorpresa in un ristorante con Onassis (è l’inizio ufficiale della loro storia d’amore; in quegli anni il divorzio non era ancora legale e a Maria toccherà anche la parte dell’infedele). Maria che esce dal tribunale di Milano dopo la causa di divorzio assediata da giornalisti e fotografi. Maria a cena con Grace Kelly e Vittorio De Sica. Maria in macchina, seduta tra Grace e il principe Ranieri di Monaco. Maria a provare abiti e cappelli nell’atelier di Biki... C’è un aspetto che accomuna tutte queste istantanee, una sorta di forza magnetica che ci costringe a cogliere solo questi gesti, quei momenti che distinguono irrevocabilmente un destino da ogni altro.
Ci sono certe fotografie che si offrono come pura immagine, come ritagli di realtà, ma, nello stesso tempo, rappresentano anche la cerimonia di consacrazione di questa immagine. Per un misterioso processo di sublimazione (dove il fattore temporale gioca un ruolo importante), l’immagine si trasfigura in icona. L’icona è una forma di provvisoria immortalità terrena; nella vita esistono strade che fin dall’inizio mettono l’uomo di fronte a questa sagoma di perennità, ancorché incerta, e persino inverosimile, ma tuttavia innegabilmente possibile: sono le strade degli artisti, degli uomini di spettacolo, di quanti riescono a imporre la loro tipicità essenziale. Che consiste nel raggelare il reale con qualcosa di unico che ne arresti la continua mutazione. L’icona è un mito d’oggi, l’inserzione di un frammento di eternità nel convulso racconto della nostra contingenza.
Maria Callas visse d’arte e d’amore, profondamente segnata, vittima della sua «ricchezza sentimentale», per usare le parole di Pier Paolo Pasolini. Un sentimento che il poeta friulano sublima nel componimento che le dedica intitolato Un affetto e la vita. Complici alcuni equivoci, come l’anello che lui le regala sul set di Medea (1969), a riprese finite, Callas continua a sperare che lui la sposi, ma questo non accade. Pasolini soffre perché il suo amato Ninetto Davoli ha deciso di sposarsi e Maria, nonostante tutto, accetta di fargli da confidente. «Sono infelice per te, ma contenta che ti sei confidato in me. Caro amico, sono infelice che non posso essere vicina in questi momenti difficili per te come lo sei stato tu spesso con me», scrive lei.
Al Teatro alla Scala, di cui era stata regina per diversi anni, cantò per l’ultima volta l’11 dicembre 1961, e in quella Medea si individua, forse, l’esecuzione più alta di sempre. Dino Buzzati, presente in platea, ci lascia un’istantanea della figura di lei: «Era bellissima. A un certo punto si gettò a terra lunga distesa, così rimanendo immobile. Non ho mai visto nessuna donna distesa a terra con tanto stile ed eleganza».