La Lettura, 4 novembre 2023
I bambini che disegnano sono come i sapiens di centomila anni fa
Se gli scarabocchi dei bambini non fossero solo dei fogli di carta pasticciati? Se i disegni infantili raccontassero le storie di chi li ha realizzati? Se dietro un’inesperta traccia grafica ci fosse scritto chi siamo, dove andiamo, come siamo arrivati qui? Che sia (almeno un po’) così è convinto Stefano Calabrese, ordinario di Semiotica del testo all’Università di Modena e Reggio Emilia.
«Il nostro sistema culturale – spiega il professore a “la Lettura” – ci ha abituato a parametrare lo sviluppo del cervello del corpo umano a quello della cultura; quindi partiamo culturalmente da Omero, per noi tutto comincia più o meno da lì. Invece le nostre aree visive si sviluppano molto prima con Homo erectus, che appare circa 1,8 milioni di anni fa restando a lungo, fino circa al Paleolitico superiore intorno ai 100 mila anni a. C., e che ha processato la realtà servendosi soprattutto delle aree visive: ha scattato “fotografie” dell’habitat in cui viveva per trarne vantaggi o preparare difese immunitarie».
Insomma, la parola è arrivata molto dopo, per cui la grammatica su cui abbiamo costruito il linguaggio verbale è la grammatica visiva: il linguaggio è nato su una base visiva. Un esempio? «In tutto il mondo “su” è buono e “giù” è cattivo; questa è una metafora che deriva dalla grammatica del linguaggio visivo». In tutto questo i bambini cosa c’entrano? «Hanno ereditato questa grammatica arcaica, perciò quando disegnano, fino a che noi non li civilizziamo, ed è necessario farlo beninteso, loro ci parlano con il linguaggio ancestrale».
Così un bambino di tre anni non racconta a parole, ma disegna e per farlo ricorre a un alfabeto ereditato da migliaia di anni, non adulterato dalla cultura di riferimento. «Guardare un disegno infantile significa aggirarsi in un’altra epoca. È come se vedessimo il mondo come lo si vedeva nel Paleolitico superiore».
Alla luce di ciò la nascita del primo Archivio digitale del disegno infantile — che verrà presentato il 12 novembre al Learning More Festival a Modena e inaugurato il 20 novembre al dipartimento di Educazione e scienze umane a Reggio Emilia – è un passaggio importante, fondamentale. «Sarà uno strumento per antropologi, psicologi, sociologi, studiosi. Abbiamo iniziato con settecento disegni raccolti in buona parte nella nostra regione. Per incrementare l’Archivio saranno contattate le sovrintendenze scolastiche di tutt’Italia. Vi confluiranno materiali da musei storici della scuola, come quello di Torino, e da raccolte internazionali, come quella di un maestro tedesco che negli anni Sessanta e Settanta nella zona della Baviera faceva disegnare tantissimo i bambini. L’Archivio diverrà una testimonianza dell’immaginario infantile di epoca in epoca, potremmo scoprire come concepivano ambiente, famiglia, relazioni, emozioni attraverso testimonianze di prima mano».
Guardare un disegno infantile significa per Calabrese aggirarsi in una «foresta arcaica». Nello scarabocchio di un bambino di due-tre anni c’è già una storia: «Il soggetto che disegna sé stesso in preda alla rabbia si rappresenta dall’interno non dall’esterno, mostra il proprio stato interiore. Il disegno racconta che è accaduto qualcosa, che c’è un soggetto, che ci sono una causa e un effetto. Raffigurare un vortice che si muove circolarmente in senso orario mostra il modo in cui, durante un picco di aggressività, il cortisolo rende i neuroni più attenti allo scatto in avanti: uno scribble, uno scarabocchio, è in questo caso una autentica radiografia della collera».
L’Archivio – nato in collaborazione con il Centro interdipartimentale di ricerca sulle Digital Humanities dell’Università di Modena e Reggio Emilia (Dhmore), il servizio comunale di Reggio Emilia «Officina Educativa» e l’agenzia didattica Future Education Modena – fa capo a un gruppo di ricerca coordinato da Calabrese e di cui fanno parte Valentina Conti, ricercatrice in Narratologia, e Ludovica Broglia, assegnista di ricerca. Il loro lavoro si fonda su criteri scientifici grazie a una rigorosa metadatazione attraverso tags, parole chiave, schedature. Spiega lo specialista: «L’idea è che uno studioso tra vent’anni possa, usando un tag, per esempio rosso, comparare tutte le situazioni in cui il rosso è presente; oppure taggando la parola casa vederne le rappresentazioni in fasce d’età e in epoche diverse». I disegni prodotti da bambini e adolescenti sono suddivisi in quattro categorie a seconda dell’età degli autori e del livello scolastico (Nido, 0-3 anni; Scuola dell’infanzia, 3-6; Scuola primaria, 6-11; e Scuola secondaria, 11-14).
Accanto alla volontà di dare importanza alla visual history c’è anche, da parte dello studioso, il proposito di reintrodurre il disegno nelle attività di apprendimento, metterlo all’interno nei programmi scolastici. «Il disegno è compatito, siamo vissuti in un contesto culturale che ha depresso l’immagine e favorito la parola. Nel nido e nella scuola dell’infanzia si ritiene che i bambini non abbiano capacità cognitive tali da passare a utensili di tipo verbale, allora li si fa disegnare. C’è ancora il pregiudizio del bel disegno, a noi, invece, non importa se un disegno è bello oppure no, l’importante è il disegno. È un linguaggio consustanziale ai bambini, non appreso, adamitico; uno strumento semiotico con cui riescono a esprimersi e trasmettere emozioni».
Non è un caso l’attenzione che oggi ha assunto il visual storytelling: l’avvento del digitale, della tecnologia informatica e del web ha messo in evidenza la facilità con cui ci relazioniamo al linguaggio visivo. «Fino a vent’anni fa, i test di neuro-imaging rilevavano un’attivazione delle aree occipitali della visione nel corso della lettura di testi verbali solo nel caso delle lingue ideogrammatiche orientali, mentre oggi i test di lettura sui media digitali rivelano la medesima attivazione cerebrale. Non leggiamo le parole, le guardiamo e poi le interpretiamo». E aggiunge: «La sperimentazione neuro-cognitivista dagli anni Novanta fornisce altre prove indubitabili di questa epocale riscoperta del linguaggio visivo, di cui gli emoji sono solo l’effetto di superficie».
Un altro esempio molto attuale viene dalle graphic novel, genere che ha conquistato in pochi anni una fetta importante del mercato del libro. «Abbiamo capito che per organizzare le nostre informazioni usiamo le narrazioni, di solito pensiamo alle narrazioni verbali ma oggi sono invece le narrazioni sequenziali ad avere un enorme successo. In Francia gran parte dell’alfabetizzazione passa da lì; i libri di testo nella scuola di primo e di secondo grado presentano graphic novel. L’immagine consente una comprensione e una memorizzazione migliori, attraverso i fumetti i ragazzi ricordano meglio».