Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  novembre 04 Sabato calendario

Ultime su Neandertal e Homosapiens


Mai così tanti premi erano stati assegnati a studiosi della storia naturale umana. Dopo il premio Nobel per la medicina del 2022 a Svante Pääbo, l’esploratore del Dna umano antico del Max Planck Institute per l’antropologia evoluzionistica di Lipsia, ora uno dei premi Balzan del 2023 è stato attribuito, per l’evoluzione umana, al paleoantropologo francese Jean-Jacques Hublin, collega di Pääbo a Lipsia e professore al Collège de France. Abbiamo dialogato con lui.
Un altro premio internazionale dedicato alla curiosità di capire come noi esseri umani siamo arrivati sin qui.
«Svante Pääbo è un amico ed erano anni che aspettavamo con ansia questo riconoscimento per lui. I premi scientifici non onorano solo le persone, ma fanno luce sulle discipline scientifiche. Questo vale anche per il premio Balzan del 2023, di cui la Fondazione mi ha onorato. In un momento in cui molti si interrogano sul futuro dell’umanità, è significativo che questi premi pongano l’accento sulla comprensione della nostra traiettoria evolutiva in un passato molto lontano».
Lei è uno dei massimi esperti dei nostri cugini Neanderthal, un’umanità diversa dalla nostra che presenta ancora tratti sfuggenti. Come è nata la loro specie?
«Viviamo in un mondo in cui solo una specie umana abita la Terra. Questa situazione può sembrarci normale, ma in realtà è eccezionale su scala geologica ed è esistita solo per 40 mila anni. Prima di allora, e per milioni di anni, diverse specie di ominini hanno coesistito sul nostro pianeta, a volte anche nelle stesse regioni. I Neanderthal nacquero in Eurasia occidentale, a causa dell’isolamento geografico e delle fluttuazioni demografiche dovute al susseguirsi di cicli glaciali e interglaciali. La nostra specie ebbe invece origine in Africa, adattandosi a condizioni ambientali diverse».

Avete un’idea del perché dopo la soglia di 40 mila anni fa non li troviamo più?
«Negli ultimi 300 mila anni, popolazioni di origine africana sono entrate ripetutamente nel Vicino Oriente e abbiamo prove di antichi scambi genetici con i Neanderthal. Homo sapiens era già presente in Asia meridionale almeno 80 mila anni fa. L’evoluzione verso una maggiore complessità tecnica e sociale, che era in atto anche tra i Neanderthal, ha subito un’accelerazione nella nostra specie. Come il latte bollente che trabocca e spegne le fiamme sotto le altre pentole, la nostra specie ha soppiantato tutte le altre, in parte assorbendole».
Che rapporti c’erano tra i nostri antenati e i Neanderthal?
«A volte vorremmo credere in una preistoria priva di violenza, in cui gli esseri umani vivevano in armonia con gli altri e con la natura. Gli scambi pacifici possono spiegare il flusso genetico tra Neanderthal e Homo sapiens, così come la condivisione di alcune tecnologie. Tuttavia, lo sterminio di un piccolo gruppo da parte di migranti che cercano di prendere il loro posto, risparmiando solo due o tre giovani donne che rapiscono, produrrà lo stesso risultato poche generazioni dopo. Il nostro successo demografico e la nostra maggiore adattabilità ad ambienti instabili ed estremi fecero la differenza».
Se un giorno fossimo in grado di riportare in vita un Neanderthal, che cosa scopriremmo?
«Penso innanzitutto che sia difficilmente auspicabile, per ragioni etiche facilmente immaginabili. Credo che saremmo molto sorpresi, perché è difficile per noi concepire una forma umana con un comportamento complesso che sia al contempo diversa dalla nostra. A quasi due secoli dall’emergere delle idee evoluzionistiche, rimaniamo ancora attaccati alla comoda nozione di una netta separazione tra l’umano e il non umano».
L’attribuzione dei fossili da lei scoperti nel sito marocchino di Jebel Irhoud a Homo sapiens anziché a Neanderthal e la loro retrodatazione a 300 mila anni fa hanno suscitato molte reazioni, favorevoli e contrarie. A che punto è il dibattito sei anni dopo?
«Tra i paleoantropologi è stata abbastanza popolare l’idea che i “veri” esseri umani moderni siano apparsi in modo improvviso in un momento specifico del passato. Si tratta di una visione piuttosto biblica dell’origine dell’umanità attuale, con l’improvvisa comparsa di una figura simile ad Adamo. Ciò che le scoperte di Jebel Irhoud hanno confermato è che, in realtà, negli ultimi 300 mila anni si è verificata un’evoluzione significativa all’interno della nostra specie, in particolare nel cervello. Gli individui di Jebel Irhoud sono effettivamente Homo sapiens, ma non sono “moderni” né in senso anatomico né comportamentale. Non esiste quindi un punto unico oltre il quale l’evoluzione si sarebbe quasi arrestata».
Secondo lei, la nostra specie si è sviluppata gradualmente in tutta l’Africa e non solo in Africa orientale come si è sempre pensato. Ma perché popolazioni sparse in un continente così vasto ed eterogeneo avrebbero sviluppato gli stessi tratti, in parallelo?
«In Africa ampie regioni non hanno ancora restituito alcun fossile, ma l’assenza di fossili non prova l’assenza di popolazioni nel passato. Grazie a condizioni geologiche favorevoli alla fossilizzazione, abbiamo molte più informazioni sull’Africa orientale e per questo si è ipotizzato un po’ frettolosamente che fosse una sorta di “giardino dell’Eden”. Jebel Irhoud ha dimostrato che forme antiche della nostra specie possono essere trovate lontano dal Kenya o dall’Etiopia o dall’Africa subsahariana. Oggi pensiamo che la nostra specie si sia evoluta attraverso un processo di scambio tra popolazioni debolmente strutturate che popolavano l’Africa. Sottoposte a pressioni selettive simili – essenzialmente il vantaggio dato dalla complessità sociale e tecnica – hanno potuto sviluppare indipendentemente innovazioni comportamentali e mutazioni favorevoli, che poi si sono propagate da una popolazione all’altra ogni volta che le condizioni ambientali le hanno messe in contatto».
Quanto sono stati importanti gli eventi di ibridazione tra le specie umane recenti?
«L’ibridazione era un fenomeno piuttosto comune. Lo si osserva anche tra le specie attuali di mammiferi che popolano il pianeta. La speciazione non è un processo breve: dura per un lungo periodo di tempo, a volte milioni di anni, e il completo isolamento genetico è solo il punto finale. Tuttavia, una volta raggiunto un punto di divergenza, anche se esiste ancora un certo livello di interfecondità, non si può tornare indietro. Probabilmente Neanderthal e Homo sapiens erano due specie in via di formazione, sul punto di separarsi completamente quando una ha sostituito l’altra».
Cosa pensa della scoperta che una sequenza neandertaliana sul nostro cromosoma 3 ha avuto un ruolo nella predisposizione a gravi sintomi da Covid-19?
«Dopo gli scambi genetici con i Neanderthal, la selezione naturale ha rapidamente eliminato dal nostro genoma la maggior parte dei loro contributi. Abbiamo conservato però una piccola percentuale di Dna neandertaliano, sia perché non ha avuto alcun impatto sulla nostra biologia ed è quindi sfuggito alla selezione, sia perché conferiva qualche vantaggio. Non esistono geni intrinsecamente “buoni” o “cattivi”. In un certo momento del passato e in un determinato ambiente, un pezzo di Dna può rivelarsi vantaggioso, ma lo stesso frammento può rivelarsi in seguito, per esempio di fronte a una nuova malattia, deleterio».

Che cosa ha differenziato il genere Homo da tutti gli altri ominini, oltre al bipedismo? Forse il mantenimento di tratti giovanili?
«Negli ultimi due milioni di anni, l’organo che ha subito l’evoluzione più significativa negli ominini è il cervello, che ci ha regalato un livello eccezionalmente elevato di capacità cognitive. Ma lo sviluppo di un cervello molto grande pone numerose sfide, poiché ha un costo metabolico impegnativo per l’organismo. La particolarità di Homo sapiens è che non si è trattato tanto di un aumento di dimensioni quanto di una riorganizzazione del cervello che ha permesso di potenziarne le capacità senza aumentare troppo il costo energetico. Molti adattamenti umani sono risposte ai vincoli di questo organo ad alta intensità energetica. Tra questi, il modo in cui i bambini vengono al mondo e la durata prolungata del loro sviluppo fino all’età adulta. L’investimento nella loro crescita è sostenibile perché è distribuito su un lungo periodo di tempo. A loro volta, queste caratteristiche umane uniche sono rese possibili solo da un alto livello di cooperazione tra gli adulti e dall’ambiente artificiale che gli esseri umani possono creare intorno a loro».
Noi, più che adattarci al mondo, lo trasformiamo per viverci meglio.
«Sì, gli ominini hanno intrapreso un percorso evolutivo particolare, volto a modificare l’ambiente per soddisfare le proprie esigenze e garantire il successo riproduttivo. La fabbricazione di utensili, l’accensione del fuoco o la costruzione di rifugi hanno rappresentato le fasi iniziali di questa tendenza, che è culminata nello sviluppo dell’agricoltura e poi delle società industriali».
Qual è la prossima frontiera della paleoantopologia?
«Come giovane dottorando, a volte temevo di essere nato troppo tardi in un mondo che aveva visto troppe scoperte prima del mio arrivo. Non avrei potuto sbagliarmi di più. Da quando ho iniziato, sono stati scoperti più fossili umani che nell’intero secolo precedente e sviluppati metodi quasi inimmaginabili nella mia giovinezza, come la paleoantropologia virtuale e la paleogenetica. Oggi sappiamo estrarre sempre più biomolecole da vari materiali. L’analisi delle proteine fossili è una nuova frontiera. Resto convinto però che il lavoro sul campo rimarrà a lungo una fonte cruciale di conoscenza, poiché ci sono ancora molti punti vuoti sulla mappa del passato dell’umanità».
La vostra ricerca è sempre interdisciplinare. Perché è così importante mescolare dati diversi ma convergenti per comprendere l’evoluzione umana?
«I progressi della scienza spesso provengono da luoghi inaspettati. In paleoantropologia, la convergenza di molte discipline si è rivelata straordinariamente fruttuosa. I contributi della biochimica, della genetica, delle tecniche di imaging e dell’informatica sono stati fondamentali. Non ho dubbi che l’intelligenza artificiale porterà a nuovi progressi, soprattutto nella gestione di grandi quantità di dati, come quelli che si incontrano nell’analisi dei siti archeologici o nello studio dei genomi antichi e moderni. Quindi lancio un messaggio di speranza agli studenti che seguono la mia disciplina: non è troppo tardi, il futuro vi riserva molte sorprese!».