La Stampa, 3 novembre 2023
Quando c’era Silvio Berlusconi e la sua tv mi appariva alla pensilina del bus
Il piccolo agglomerato di case è rimasto quasi intonso, benché circondato da un ipermercato pro capite e varie opacità commerciali: ortofrutta grandi come il Molise, bar stracolmi di pasticcini alla mandorla, di quelli che proprio non puoi rifiutarti di vendere, ristoranti che cambiano gestione con la frequenza di una segreteria del Pd.
Diciamo che vanno forte le lavanderie. Case basse, rosse. Intonaco a momenti. Una tabaccheria ricolma di slot machine laddove c’era una piccola Coop, un fornaio che ha emesso l’ultimo scontrino in lire, le vestigia di un vecchio cinema porno, l’Excelsior, che fronteggiano la caserma della polizia cinofila. È stato l’ultimo a chiudere in Italia, va’ a capire perché. Probabilmente zoofilia. A est, un centro di permanenza per migranti: donne coperte come canadesi a due piazze, uomini vestiti come rapper del New Jersey, la nazionale maghrebina spacciatori al gran completo. Poco più in là, uno studentato: dal produttore al consumatore.
A ovest, condominii aspirazionali. Centri civici, centri sociali per anziani, vialetti in acciottolato, impianti sportivi, parchi. Ci giocavo a baseball da bambino. Perdevo sempre. Li aveva disegnati il Pci quando il piano regolatore lo compitavano rinomati architetti giapponesi. Wannabe Osaka, ma con le pareti in cartone. Quindi Sofia, ma con gli umarell dentro. Il quarto lato è uno sgambatoio per cani che visse tempi migliori (quando era incolto), peggiori (quando fungeva da deposito nazionale per la Volkswagen) e più noiosi (quando ci facevano le Feste dell’Unità e ci suonavano gli Inti-Illimani).
Sembra di stare dentro Up ma senza palloncini che ti portano via. E senza bambini ciccioni vestiti da generale Figliuolo. Il quartierino si chiama «Oca». «Oca», in vernacolo, ha un significato non strettamente faunistico. Allude a un tipo di volatile più gioviale, più turgido.
Un affare particolarmente vantaggioso, per dire, si definisce «tutta oca», con una chiara allusione al fatto che sì, le dimensioni in economia sono importanti. E anche «affare», da queste parti, ha un significato giustapponibile: di John Holmes si sarebbe detto che aveva un gran bell’affare. D’improvviso, realizzo che in queste zone parliamo molto di cazzo.
Di fronte a una pizzeria egiziana, che si dichiara italiana, a pochi passi da un’altra pizzeria che si chiama “’A livella” perché è vicina a un passaggio a livello, felicemente ignara dell’odore di putrefazione che incidentalmente emana, proprio là, dove un tempo c’era un orefice sempre deserto che sussurrava ai caramba, alberga una pensilina del bus. Ed è proprio lì che per la prima volta mi apparve Lui. Me lo ricordo ogni volta che ci passo. Pioviggina, sto tornando da scuola. Il giorno prima, all’uscita, mi hanno tagliato un dito con una lametta, nel tentativo di affettarmi la cartella in plastica col marchio di un prestigioso negozio del Centro. Del resto Ask ancora non esiste e i bulli dovranno pur sfogarsi in qualche modo. Porto una fasciatura al dito che sembra il turbante di Kabir Bedi e ho l’umore della tigre di Kabir Bedi dopo che il kriss malese le è entrato in pancia. Probabilmente sparse meno sangue. Mentre sale e scende la marea, io scendo dal gigante giallo e rosso fuori, verde depressione dentro. La pensilina è proprio di fronte al bar in cui mio padre gioca a boccette. Ne esce un fumo grigio, misto a un odoraccio di vino scadente e Campari. Praticamente uno spritz con dentro le cicche. Nazionali, senza filtro. Mentre attraverso la strada, all’improvviso si staglia lui. Il rettile. Maestoso. Fresco di colla sul manifesto. In bocca, ha un fiore rosso. Il disegno è morbido, accattivante, tridimensionale. L’arancione è irresistibile come una sedia di Vico Magistretti. Sotto, quello che solo a una mente semplice – la mia – potrebbe apparire uno slogan. Invece è una caramella all’Mdma, è il clown di The Game, è l’impermeabile che si spalanca all’improvviso.
«Corri a casa in tutta fretta, c’è un biscione che ti aspetta». D’acchito, il bianco e nero non esiste più. Le mattinate con Telescuola a imparare il russo rinculano dietro la Cortina di Ferro. Le Olimpiadi del ’72 a Monaco si perdono come lacrime sulla via di Damasco. Scompare Jader Jacobelli, se ne va Milleluci della Carrà, non c’è più Macario. Discoring e i suoi playback maldestri sfumano lentamente, il vecchio Phonola di casa abbandona sua sponte le frequenze esotiche della Tv Svizzera, di Capodistria, di Tele Zola Predosa.
Il Nuovo ha smesso di avanzare ed è lì, su quel 140x200.
Ancora non so che Silvio Berlusconi diventerà padrone del mio immaginario erotico, cioè di Medusa, la casa di produzione specializzata in docce e buchi della serratura, il corrispondente cinematografico del Postal Market, il catalogo da cui il Dottore sceglierà tutte le protagoniste dei suoi primi show, almeno quelli pubblici: Fenech, Bouchet, carmenrusso.
Né colgo il lampante collegamento tra l’affare, l’oca e quella cosa lì, il Biscione. O forse sì, magari ci sono cose di me che non so. Ma il fatto è che mi aveva già al: «Corri a casa».
Mi inerpico sui tre scalini del bar in cui mio padre sta tentando l’ennesimo filotto, faccio slalom tra le casse di birra, il frigo dei ghiaccioli col Carlino sopra, alcuni avventori che, richiesti di compiere la prova del palloncino, potrebbero utilizzarlo all’istante per produrre un simpatico cagnetto. E lo imploro: «Babbo, portami a vedere gli studi di Canale 5». «Voglia di biscione, lo canteranno in coro i bambini del mondo. Trullallà biscione, noi ci mettiamo il solco tu il seme fecondo» (Rocco Tanica e Cristina Da Vena, audiocassetta abbinata a Cuore, 1994).
All’epoca sono me stesso ragazzino. Quindi un rompicoglioni ragazzino. Mi infilo nelle radio private assumendo dosi passive e massicce di sostanze psicotrope. Assalto le tv locali per vederne il backstage, che spesso manco c’è.
Importuno intere case editrici. A dieci anni ho già ho preso un bus per la lontana San Lazzaro di Savena, da solo, scopo pellegrinaggio alla redazione del Guerin Sportivo. Volevo conoscere Italo Cucci, il direttore. Che poi è diventato Italo Balbo, per quella vecchia consuetudine che i fascisti sono degli «intellettuali anarchici di destra» solo quando non governano.
Poi fanno la fine di Buttafuoco. Cucci faceva un giornale bellissimo e soprattutto tifava Bologna come me. Ma era sabato, c’era solo l’usciere. Mi fecero vedere la redazione deserta, le rotative e il magazzino: accatastati, pile di periodici stampati in loco. Quasi tutti tempestati di gente ignuda e flessibile. Li avrei rivisti all’Excelsior. —